AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA (REATI CONTRO LA -ARTT. 361-393 C.P.)


CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 14 marzo 2019, n.11476
La causa di non punibilità prevista dall'art. 384, comma 1, c.p. in relazione ai delitti contro l'amministrazione della giustizia si applica anche in caso di convivenza more uxorio. Ne consegue che il convivente della sorella di un evaso di prigione, che aiuti quest'ultimo a sottrarsi alle ricerche di polizia, non è punibile per favoreggiamento. |
CASUS DECISUS
La Corte di appello di Venezia confermava la sentenza con cui il Tribunale di Vicenza aveva condannato un soggetto per il reato di favoreggiamento, per aver aiutato il fratello della compagna, evaso, a sottrarsi alle ricerche dei carabinieri, ospitandolo all’interno della propria abitazione, e, successivamente, fornendo false informazioni ai carabinieri in ordine alla presenza dello stesso all’interno della sua abitazione. Pertanto, l’imputato ricorreva in Cassazione, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, atteso che la sentenza sarebbe stata viziata nella parte in cui non era stata configurata l’esimente di cui all’art. 384 c.p., comma 1, e non si era tenuto conto delle recenti riforme intervenute nel diritto di famiglia e, in particolare, delle L. 20 maggio 2016, n. 76 che, all’art. 1, lett. a), che avrebbe esteso l’esimente alle unioni civili. |
ANNOTAZIONE
Il convivente della sorella di un soggetto evaso aiuta quest’ultimo a sottrarsi alle ricerche dei carabinieri: risponde di favoreggiamento o è configurabile nei suoi confronti la scusante di cui all’art. 384, comma 1, c.p.? Nel rispondere a tale interrogativo la Suprema Corte evidenzia che rispetto all’impianto codicistico del 1930, solo recentemente siano state episodicamente introdotte alcune disposizioni che danno rilievo alla convivenza more uxorio. Con riferimento alla convivenza more uxorio, la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che l’art. 29 Cost. riconosce alla famiglia legittima "una dignità superiore, in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio", mentre la famiglia di fatto è fondata sull’affectio quotidiana di ciascuna delle parti, liberamente e in ogni istante. In tale contesto si pone la L. 20 maggio 2016, n. 76 ("Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze") - nota anche come Legge Cirinnà - con cui è stata istituita l’unione civile tra persone dello stesso sesso "quale specifica formazione sociale ai sensi degli artt. 2 e 3 Cost.", ed altresì introdotta una disciplina delle convivenze di fatto. Quanto alle unioni civili, con la L. n. 76 del 2016, si riconoscono svariati effetti giuridici a relazioni affettive tra persone dello stesso sesso, maggiorenni, che istituiscono il relativo vincolo con dichiarazione resa, in presenza di testimoni, davanti a un ufficiale dello stato civile. In via di principio la "ratio" della Legge Cirinnà sembra essere quella di operare un riconoscimento sistemico di effetti - all’interno della coppia, nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i terzi in genere - che colloca le unioni civili in posizione sostanzialmente equiparata al matrimonio. Quanto alle convivenze di fatto, la legge ha regolamentato, inoltre, la convivenza di fatto al comma 36 dell’art. 1, ai sensi del quale si intendono per "conviventi di fatto" due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, matrimonio o unione civile: "queste convivenze si distinguono da quelle di mero fatto, in quanto la formalizzazione della convivenza è data dalla dichiarazione anagrafica D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, ex art. 4 e art. 13, comma 1, lett. b), (v. L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 37)". La legge indubbiamente amplia in maniera rilevante i diritti e le facoltà riconosciute dall’ordinamento ai conviventi, ma all’interno del quadro teorico e normativo sopra delineato, ci sono due condizioni di "convivenza di fatto": l’una di fatto "in senso stretto", in cui manca un atto formale per qualificarlo giuridicamente, la quale si configura come un’ipotesi di relazione di coppia (non matrimoniale), di costruzione dottrinaria e giurisprudenziale; l’altra, quella disciplinata dalla nuova legge che ha, dunque, un riconoscimento ufficiale da parte dell’ordinamento. Tuttavia, al di là di tali distinzioni, l’espressione "convivenza di fatto" deve essere intesa, agli effetti penali, nel significato più ampio, corrispondente a quello che tradizionalmente assume il concetto di "convivenza more uxorio": una situazione "fattuale" omogenea a quella consacrata da vincolo matrimoniale; una situazione caratterizzata da una comunione materiale e spirituale paragonabile a quella prevista per il rapporto coniugale, con esclusione dell’"unione civile". Quindi, se si cerca una coerenza complessiva del sistema, il binomio famiglia giuridica-famiglia di fatto va ricondotto in via tendenziale ad unità sul piano penalistico e una interpretazione valoriale, non in contrasto con la Costituzione, consente di ritenere applicabile l’istituto di cui all’art. 384 c.p., comma 1, anche ai rapporti di convivenza "more uxorio", pur dopo la legge c.d. Cirinnà. Una tale interpretazione sembra, peraltro, conforme all’8 della Convenzione EDU. La giurisprudenza della Corte EDU accoglie una nozione sostanziale, onnicomprensiva di matrimonio senz’altro ricomprendente anche i rapporti di fatto, privi di formalizzazione legale, ai quali sì ritiene che l’art. 8 cit. assicuri incondizionata tutela. Infatti, trattandosi di fonti internazionali aventi efficacia penale in bonam partem, esse sono immediatamente cogenti per l’interprete, a meno che non si pongano in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, e non ne è questo il caso. In definitiva, ritiene il Collegio, l’evidenziato contrasto può essere senz’altro risolto in via interpretativa, poiché il necessario adeguamento della normativa interna a quella sovranazionale (nel senso della completa equiparazione in bonam partem, ad ogni effetto penale, della famiglia pieno iure a quella di fatto) non risulta contrario al principi costituzionali fondamentali interni, e, d’altro canto, proprio il contrasto insorto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità sul tema, impedisce di ravvisare l’esistenza di un diritto vivente assolutamente ostativo. |
TESTO DELLA SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 14 marzo 2019, n.11476 - Pres. Paoloni – est. Silvestri Ritenuto in fatto 1. La Corte di
appello di Venezia ha confermato la sentenza con cui il Tribunale di Vicenza ha
condannato C.S. per il reato di favoreggiamento. All’imputato è
contestato di aver aiutato l’evaso Ca.Ma. a sottrarsi alle ricerche dei
carabinieri, ospitandolo all’interno della propria abitazione, e,
successivamente, fornendo false informazioni ai carabinieri in ordine alla
presenza dello stesso Ca. all’interno della sua abitazione. 2. Ha proposto
ricorso per cassazione il difensore dell’imputato deducendo un unico motivo con
cui lamenta violazione di legge e vizio di motivazione; la sentenza sarebbe
viziata nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto non configurabile
l’esimente di cui all’art. 384 c.p., comma 1, in ragione dell’assunto secondo
cui Ca.Ma. , fratello della convivente di C. , non potrebbe essere considerato
giuridicamente prossimo congiunto, ai sensi dell’art. 307 c.p.. Secondo il
ricorrente, l’affermazione della Corte di merito, che ha ritenuto non
configurabile la esimente facendo riferimento alla nozione di famiglia
legittima, non terrebbe conto delle recenti riforme intervenute nel diritto di
famiglia e, in particolare, delle L. 20 maggio 2016, n. 76 che, all’art. 1,
lett. a), avrebbe esteso l’esimente alle unioni civili; si valorizza anche
l’art. 8 Cedu che farebbe riferimento ad una nozione onnicomprensiva di
famiglia, alla cui tutela accederebbero anche i c.d. rapporti di fatto. Ciò che tuttavia
non pare essere stato compiuto con la L. n. 76 del 2016 è il coordinamento del
diritto penale con le convivenze di fatto; ci si riferisce a quelle
preesistenti situazioni di disparità di trattamento, che sono state
verosimilmente acuite proprio a seguito dell’introduzione delle unioni civili.
In tal senso, sono significativi casi della scusante di cui all’art. 384 c.p. e
della causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p. che sono ora
configurabili per le parti delle unioni civili, ma continuano a non essere
formalmente riferibili ai fatti commessi dai conviventi 'more
uxorio'. L’applicazione
della L. n. 76 del 2016 nel settore penalistico, si è osservato, incontra
obiettive difficoltà che derivano dalla contrapposizione, o dalla divergenza di
disciplina, tra coppie 'unite civilmente' e 'conviventi di
fatto'. Si è segnalata una
rilevante frattura tra la regolamentazione delle 'unioni civili'
rispetto alla disciplina delle 'convivenze di fatto', dal momento che
la legge distingue, sul piano qualitativo, i due legami, applicando solo alle
parti di un’unione civile una serie di disposizioni analoghe a quelle previste
nel codice civile per la disciplina del matrimonio (art. 143). Considerato in
diritto 1. Il ricorso è
fondato. 2. Non è in contestazione
che tra l’imputato e la sorella del soggetto nel cui interesse sarebbe stata
commessa la condotta di favoreggiamento sussistesse un rapporto di stabile
convivenza, consolidata nel tempo, dal quale erano nati cinque figli. La
questione attiene al se nell’ambito di rapporti del tipo di quelli in esame sia
applicabile la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p., comma 1. 3. È indubbio che
rispetto all’impianto codicistico del 1930, solo recentemente siano state
episodicamente introdotte alcune disposizioni che danno rilievo alla convivenza
more uxorio. Significativo è il
caso del delitto di maltrattamenti in famiglia, trasformato nel 2012 in
maltrattamenti contro familiari e conviventi, ed è altresì noto come, in
assenza di interventi del legislatore, l’adeguamento delle norme penali alla
mutata realtà sociale dei rapporti di coppia debba confrontarsi, da una parte,
con il divieto di analogia (nei casi in cui l’equiparazione dei rapporti di
convivenza a quelli che traggono la propria fonte costitutiva nel matrimonio
produrrebbe effetti 'in malam partem'), e, dall’altra, con il
carattere eccezionale delle disposizioni via via considerate (nel caso, invece,
di effetti 'in bonam partemn. Il tema involge
non solo la scusante di cui all’art. 384 c.p., in tema di delitti contro
l’amministrazione della giustizia, ma, ad esempio, la causa di non punibilità
prevista dall’art. 649 c.p., in materia di delitti contro il patrimonio. La dottrina e la
giurisprudenza hanno da tempo sollecitato un intervento del legislatore sulla
materia ed in questa direzione, con riferimento alla convivenza more uxorio, la
Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che l’art. 29 Cost. riconosce
alla famiglia legittima 'una dignità superiore, in ragione dei caratteri
di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e
doveri che nascono soltanto dal matrimonio' (sent. n. 310 del 1989),
mentre la famiglia di fatto è invece fondata sull’affectio quotidiana di
ciascuna delle parti, liberamente e in ogni istante revocabile (ord. n. 121 del
2004), pur assumendo anch’essa rilevanza costituzionale, ma nell’ambito della
protezione dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali garantite
dall’art. 2 Cost. (sent. n. 237 del 1986 e sent. n. 140 del 2009). In tali pronunzie
si è posto in luce che, senza dubbio, la convivenza more uxorio costituisce un
rapporto ormai entrato nell’uso e comunemente accettato, accanto a quello
fondato sul vincolo coniugale, ma si è anche aggiunto che questa trasformazione
della coscienza e dei costumi sociali, cui la Corte ha esplicitamente affermato
di non essere indifferente (sentenza n. 8 del 1996, in motivazione), non
autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure, collocandole
in una visione unificante secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe
connotazioni identiche a quelle nascenti dal rapporto matrimoniale, sicché le
due situazioni in sostanza differirebbero soltanto per il dato estrinseco della
sanzione formale del vincolo. In tale contesto,
obiettivamente consolidato, si colloca tuttavia l’autorevole e recente invito
della stessa Corte costituzionale, che, nell’ottobre del 2015, in una pronuncia
di inammissibilità relativa all’art. 649 c.p., ha ricordato che 'spetta al
ponderato intervento del legislatore...l’indispensabile aggiornamento della
disciplina dei reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare'
(sent. n. 223 del 2015). Nell’occasione, la
Corte ha affermato con chiarezza che la Costituzione 'non giustifica una
concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti' (sent.
n. 494 del 2002), ed ha chiarito che 'il fondamento di ogni deroga al
principio dell’uguaglianza tra i cittadini innanzi alla legge deve essere
misurato, in termini di razionalità (dunque in termini di congruenza dei suoi
presupposti logici e dei suoi concreti effetti), con riguardo alle condizioni
di fatto e di diritto nelle quali la deroga stessa è chiamata ad operare. E
poiché tali condizioni sono per definizione soggette ad una costante evoluzione,
la ragionevolezza della soluzione derogatoria adottata dal legislatore può
essere posta in discussione anche secondo un criterio di anacronismo, come
questa Corte, del resto, ha più volte stabilito (ad esempio, sentenze n. 231
del 2013, n. 354 del 2002, n. 508 del 2000 e n. 41 del 1999)'. Si è aggiunto che
'è ben vero che la discrezionalità legislativa si esercita non solo nella
espressione di nuove scelte normative, ma anche nella stessa conservazione, nel
tempo, dei valori normativi già affermati nell’ordinamento'. Si è
significativamente precisato che 'l’intervento di questa Corte si
legittima in casi, come quello in esame, nei quali l’inopportuno trascinamento
nel tempo di discipline maturate in un determinato contesto trasmodi, alla luce
della mutata realtà sociale, in una regolazione non proporzionata e
manifestamente irragionevole degli interessi coinvolti'. In maniera
condivisibile la dottrina ha sottolineato come la Corte, con la sentenza in
esame abbia voluto cogliere e sviluppare, muovendo dalla prospettazione
dell’ordinanza, l’assunto di una violazione del principio di ragionevolezza, se
non di necessaria razionalità delle norme giuridiche: un problema dunque di
congruenza tra funzione giustificatrice della norma e concretezza dei suoi effetti
nell’ordinamento. In tal senso la
questione della ragionevolezza, si è testualmente affermatio, è stata percepita
in una prospettiva diacronica, cioè valutando se la giustificazione originaria
della disciplina derogatoria, necessaria a giustificare la difformità di
trattamento tra consociati tutti responsabili di un medesimo fatto obiettivo,
abbia conservato la propria efficienza alla luce di un cospicuo mutamento della
situazione di fatto e del relativo complesso di norme regolatrici. 4. In tale contesto
si pone la L. 20 maggio 2016, n. 76 ('Regolamentazione delle unioni civili
tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze') - nota
anche come Legge Cirinnà - con cui è stata istituita l’unione civile tra
persone dello stesso sesso 'quale specifica formazione sociale ai sensi
degli artt. 2 e 3 Cost.', ed altresì introdotta una disciplina delle
convivenze di fatto. Quanto alle unioni
civili, con la L. n. 76 del 2016, si riconoscono svariati effetti giuridici a
relazioni affettive tra persone dello stesso sesso, maggiorenni, che
istituiscono il relativo vincolo con dichiarazione resa, in presenza di
testimoni, davanti a un ufficiale dello stato civile. In via di
principio - e con alcune significative esclusioni, a partire dalla disciplina in
materia di adozione - la 'ratio' della Legge Cirinnà sembra essere
quella di operare un riconoscimento sistemico di effetti - all’interno della
coppia, nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i terzi in genere -
che colloca le unioni civili in posizione sostanzialmente equiparata al
matrimonio. Quanto alle
convivenze di fatto, la legge ha regolamentato, inoltre, la convivenza di fatto
al comma 36 dell’art. 1, ai sensi del quale si intendono per 'conviventi
di fatto' due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di
coppia e di reciproca assistenza, non vincolate da rapporti di parentela,
affinità, adozione, matrimonio o unione civile: 'queste convivenze si
distinguono da quelle di mero fatto, in quanto la formalizzazione della convivenza
è data dalla dichiarazione anagrafica D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, ex art. 4
e art. 13, comma 1, lett. b), (v. L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 37)'. La legge
indubbiamente amplia in maniera rilevante i diritti e le facoltà riconosciute
dall’ordinamento ai conviventi, definiti come 'due persone maggiorenni
unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza
morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o
adozione, da matrimonio o da un’unione civile'; senza nessuna pretesa di
esaustività, si è sottolineato come il riconoscimento attenga a diversi ambiti
e, in particolare, quelli dell’assistenza sanitaria, della casa e del lavoro. In particolare, in
caso di malattia e di ricovero, la L. n. 76 del 2016 prevede non solo il
diritto reciproco di visita, di assistenza e di accesso alle informazioni
personali, secondo le stesse regole previste per i coniugi e i familiari, ma si
spinge ben oltre, attribuendo a ciascun convivente la facoltà di designare
l’altro convivente quale rappresentante per le decisioni in materia di salute -
in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere - e per la
donazione degli organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni
funerarie, in caso di morte. Quanto alla casa
di comune residenza, la legge attribuisce al convivente il diritto a continuare
ad abitarvi per un certo periodo, in caso di morte del partner che ne sia
proprietario, nonché il diritto a subentrare nel contratto di locazione, in
ipotesi di morte del convivente-conduttore o di suo recesso dal contratto di
locazione. Ancora, in materia
di lavoro la L. n. 76 del 2016 ha inserito nel codice civile un nuovo art. 230
ter, ai sensi del quale al convivente di fatto che presti stabilmente la propria
opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione
agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli
incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro
prestato (il diritto di partecipazione non spetta peraltro qualora tra i
conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato). Quanto infine ai
rapporti tra i conviventi, la legge stessa ha previsto la possibilità di
regolare i rapporti patrimoniali attraverso un contratto di convivenza. 5. Il tema, sul
quale si riflette in dottrina, attiene tuttavia al se, a fronte del
riconoscimento, ad ampio spettro, di diritti e obblighi connessi a rapporti di
coppia ulteriori e diversi rispetto a quello, tradizionale, del matrimonio, la
Legge Cirinnà abbia dispiegato i propri effetti anche in rami dell’ordinamento
diversi da quello civile e, quindi, anche nel diritto penale. I riflessi
penalistici derivanti dall’istituzione delle unioni civili tra persone dello
stesso sesso sono stati molteplici e di indubbio rilievo: a) si è prevista la
costituzione di una posizione di garanzia ex art. 40 c.p., comma 2, analoga a
quella istituita in relazione ai coniugi dall’art. 143 c.c., atteso che la L.
n. 76 del 2016, art. 1, comma 11 stabilisce che 'dall’unione deriva
l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla
coabitazione'; b) l’art. 1, comma 20, detta una clausola generale di
adeguamento automatico, stabilendo che 'al solo fine di assicurare
l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi
derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni
che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole
coniuge, coniugi o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli
atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e
nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione
civile tra persone dello stesso sesso (...)'; c) l’art. 1, comma 28, lett.
c) delega il Governo ad apportare con un decreto legislativo - limitatamente
alle unioni civili - 'modificazioni ed integrazioni normative per il
necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute
nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei
decreti'. In tale quadro di
riferimento è intervento il D.Lgs. n. 19/01/2017, n. 6 con cui è stata
modificata (art. 1, lett. a) la definizione legale di 'prossimi
congiunti', dettata agli effetti della legge penale dall’art. 307 c.p.,
comma 4, inserendo nel relativo novero 'la parte di un’unione civile tra
persone dello stesso sesso'. Questa modifica,
si legge nella Relazione, sarebbe necessaria in vista dell’attuazione della
Direttiva UE 2015/849, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema
finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, che all’art.
3 'fa propria una definizione rilevante ai fini penali di familiari, che
espressamente contempla accanto al coniuge una persona equiparata', con un
'chiaro riferimento alla parte di un rapporto matrimoniale o
para-matrimoniale analogo a quello derivante dall’unione civile..... La modifica della
definizione di cui all’art. 307 c.p., come si legge nella Relazione, si
riflette sulle disposizioni penali nelle quali ricorre il concetto di
'prossimo congiunto'; vengono in rilievo, quanto agli effetti
'in bonam partem': le circostanze attenuanti per la procurata
evasione (art. 386 c.p., comma 4) e per la procurata inosservanza di pene o
misure di sicurezza (art. 390 c.p., comma 2, e art. 391 c.p., comma 1); la
citata scusante relativa ai delitti contro l’amministrazione della giustizia
(ad es., falsa testimonianza) commessi a favore di un prossimo congiunto (art.
384 c.p.); le cause di non punibilità relative ai fatti di assistenza ai
partecipi di cospirazione o banda armata, o agli associati per delinquere (art.
307 c.p., comma 3, e art. 418 c.p., comma 3). Nell’ambito dei
molteplici interventi compiuti con il D.Lgs. in questione, deve essere
segnalato quello relativo al disposto del nuovo art. 574 ter c.p.. (rubricato
Costituzione di un’unione civile agli effetti della legge penale) secondo cui:
'Agli effetti della legge penale il termine matrimonio si intende riferito
anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso.
Quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento
costitutivo o come circostanza aggravante di un reato essa si intende riferita
anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso'. Non diversamente,
si è intervenuti sull’art. 649 c.p., comma 1, ampliando l’ambito applicativo
della causa di esclusione della punibilità prevista dal comma 1, che viene
estesa a favore di chi commette un delitto contro il patrimonio ai danni della
parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. 6. È stato
acutamente notato come l’effetto della riforma sul piano delle norme penali sia
stato duplice: 'da un lato, attrarre le unioni civili nello statuto penale
della tradizionale famiglia legittima eterosessuale; dall’altro lato, non
intervenire sulle coppie di fatto, rispetto alle quali rimane fermo lo stato
della discussione antecedente alla riforma'; prescindendo dai casi nei
quali il legislatore vi ha dato espressa rilevanza come, ad esempio, nell’ipotesi
del reato di maltrattamenti, sono infatti minime nella Legge Cirinnà le novità
che interessano il ramo penalistico dell’ordinamento relativamente alle
convivenze di fatto. L’unica espressa
disposizione in qualche modo relativa al diritto penale (inteso in senso lato)
è contenuta nell’art. 1, comma 38, ai sensi del quale 'i conviventi di
fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti
dall’ordinamento penitenziario'. Il riferimento è
alla L. 26 luglio 1975, n. 354 e al relativo regolamento di esecuzione; si
tratta di un’affermazione certamente importante, che però non è sostanzialmente
innovativa, atteso che, si è correttamente osservato, l’ordinamento
penitenziario parifica già parificava a diversi effetti i diritti del
convivente a quelli del coniuge. 7. Ciò che
tuttavia non pare essere stato compiuto con la L. n. 76 del 2016 è il
coordinamento del diritto penale con le convivenze di fatto; ci si riferisce a
quelle preesistenti situazioni di disparità di trattamento, che sono state
verosimilmente acuite proprio a seguito dell’introduzione delle unioni civili.
In tal senso, sono significativi casi della scusante di cui all’art. 384 c.p. e
della causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p. che sono ora
configurabili per le parti delle unioni civili, ma continuano a non essere
formalmente riferibili ai fatti commessi dai conviventi 'more
uxorio'. L’applicazione
della L. n. 76 del 2016 nel settore penalistico, si è osservato, incontra
obiettive difficoltà che derivano dalla contrapposizione, o dalla divergenza di
disciplina, tra coppie 'unite civilmente' e 'conviventi di
fatto'. Si è segnalata una
rilevante frattura tra la regolamentazione delle 'unioni civili'
rispetto alla disciplina delle 'convivenze di fatto', dal momento che
la legge distingue, sul piano qualitativo, i due legami, applicando solo alle
parti di un’unione civile una serie di disposizioni analoghe a quelle previste
nel codice civile per la disciplina del matrimonio (art. 143). 8. È stato
correttamente osservato come, all’interno del quadro teorico e normativo sopra
delineato, ci siano due condizioni di 'convivenza di fatto': l’una di
fatto 'in senso stretto', in cui manca un atto formale per
qualificarlo giuridicamente, la quale si configura come un’ipotesi di relazione
di coppia (non matrimoniale), di costruzione dottrinaria e giurisprudenziale;
l’altra, quella disciplinata dalla nuova legge che ha, dunque, un
riconoscimento ufficiale da parte dell’ordinamento (così testualmente in
dottrina). È diffusa tuttavia
l’opinione secondo cui, al di là di tali distinzioni, l’espressione
'convivenza di fatto' debba essere intesa, agli effetti penali, nel
significato più ampio, corrispondente a quello che tradizionalmente assume il
concetto di 'convivenza more uxorio': una situazione 'fattuale'
omogenea a quella consacrata da vincolo matrimoniale; una situazione
caratterizzata da una comunione materiale e spirituale paragonabile a quella
prevista per il rapporto coniugale, con esclusione dell’'unione
civile'. Ciò che resta
sullo sfondo attiene al se, davvero, con la legge c.d. Cirinnà il processo di
tendenziale parificazione del convivente al coniuge, cui anche la Corte
Costituzionale ha mostrato di non essere 'indifferente', abbia subito
un arresto o addirittura un’inversione, ove si consideri il fermento
legislativo, giurisprudenziale e dottrinario che negli ultimi anni ha invece
interessato, in ambito penale (ma non solo), proprio le convivenze 'di
fatto' non definite, nè regolate, sul piano normativo. In tal senso è
condivisibile l’opinione dottrinaria secondo cui la novità legislativa non può
costituire un insormontabile impedimento per estendere a ogni altra forma di
convivenza la disciplina che si ricava, in tema di equivalenza della figura del
convivente a quella del coniuge, dal complesso quadro storico-evolutivo della
materia. Ci si riferisce al
quadro ed ai principi cui la giurisprudenza di legittimità e costituzionale
erano già pervenuti, prima della legge c.d. Cirinnà, in relazione a casi
specifici e a singole norme. Si può fare
riferimento, quanto alla giurisprudenza di legittimità a Sez. 2, n. 34147 del
30/04/2015, Agostino, Rv. 246630 che dopo un’attenta analisi, ha esteso, in un
caso del tutto sovrapponibile a quello in esame, al convivente 'more
uxorio' la causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p., comma 1, di
chi commette taluni reati contro l’amministrazione della giustizia per salvare
il 'prossimo congiunto' dal pericolo per la libertà e l’onore; non
diversamente (in senso non difforme, Sez.4, n. 22398 del 22/01/2004, Esposito,
Rv. 229676; nello stesso senso, sul piano sistematico, Sez. 4, n. 32190 del
21/05/2009, Rv. 244682 che ha riconosciuto l’operatività della causa di
esclusione della punibilità prevista dall’art. 649 c.p.p. anche in favore del
convivente more uxorio). Si può fare riferimento, quanto alla giurisprudenza
costituzionale, a Corte Cost., n. 416 del 1996 che ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 384 c.p., comma 2, nella parte in cui
non prevede che la violazione dell’obbligo di informazione previsto dall’art.
199 c.p.p., comma 2 comporta l’esclusione della punibilità per false o
reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria fornite da chi avrebbe
dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal renderle a norma dello stesso
art. 199 c.p.p., dunque anche dal convivente more uxorio per i fatti
verificatisi o appresi durante la convivenza. Anche dopo la
legge Cirinnà e il decreto di attuazione in materia penale, la questione della
rilevanza penalistica della convivenza 'more uxorio' resta immutata
e, per certi versi, più stringente, in quanto l’assimilazione al coniuge della
sola parte dell’unione civile può condurre a decidere in maniera radicalmente
diversa forme di convivenza, certamente diverse sul piano formale da quelle
espressamente regolamentate, ma sostanzialmente analoghe. 9. Più stringente
è dunque l’esigenza, segnalata - come detto- dalla Corte Costituzionale, di
considerare nella materia in esame se la giustificazione originaria della
disciplina derogatoria prevista dalle varie norme e fondata sul dato formale
del vincolo matrimoniale, continui a giustificare la difformità di trattamento
tra consociati - tutti responsabili di un medesimo fatto obiettivo- e,
soprattutto, se essa conservi la propria valenza alla luce di un cospicuo
mutamento della situazione di fatto e del relativo complesso di norme
regolatrici, di cui si è detto. Il tema è di
obiettivo rilievo soprattutto per quanto riguarda le disposizioni penali che
producono effetti 'in bonam partem' (attenuanti, scusanti, cause di
non punibilità); la questione della parificazione giuridica di un consolidato
rapporto di fatto - che deve essere provato in maniera rigorosa- a quello di
coniugio potrebbe essere risolta con una previsione di carattere generale, cioè
con regole (necessariamente) comuni alle 'unioni civili' e alle
'convivenze di fatto, e alle coppie di fatto libere (cioè di fatto, per
dir così, 'in senso stretto'), ma è indubbio, come si è detto, che
già prima della L. n. 76 del 2016, il legislatore, con riguardo a situazioni di
convivenza non occasionali costituite dai partners senza alcuna formalità,
dunque giuridicamente non regolamentate, e la stessa giurisprudenza, ordinaria
e costituzionale, abbiano equiparato, ai fini penali, e con effetti 'in bonam
partem', il convivente al coniuge. Una diversa
impostazione, fondata sul dato formale, obiettivamente significativo, ma,
tuttavia, non conformata con il sistema normativo di riferimento - quanto meno
con riguardo agli istituti per i quali si era già pervenuti, non senza
incertezze, ad una equiparazione tra situazioni di convivenza stabile di fatto
e matrimonio - porta con sé il rischio di implicare - quanto meno con riguardo
agli effetti 'in bonam partem' profili di incerta compatibilità costituzionale
(con riferimento all’art. 3 Cost.), in punto di diversificazione delle tutele
offerte alla parte dell’unione civile rispetto al convivente di fatto. Si tratta di
rapporti rispetto ai quali è possibile tendere, quanto agli effetti di favore
derivanti dalla parificazione del convivente al coniuge, ad una parità di
trattamento sul terreno penale; se si cerca una coerenza complessiva del
sistema e si respinge l’esclusione dei rapporti fattuali, il binomio famiglia
giuridica-famiglia di fatto va ricondotto in via tendenziale ad unità sul piano
penalistico, ed è la famiglia di fatto che si deve espandere (così testualmente
in dottrina). Ne discende che
una interpretazione valoriale, non in contrasto con la Costituzione, consente
di ritenere applicabile l’istituto di cui all’art. 384 c.p., comma 1, anche ai
rapporti di convivenza 'more uxorio', pur dopo la legge c.d. Cirinnà. 10. Una tale
interpretazione sembra peraltro conforme all’8 della Convenzione EDU. La
giurisprudenza della Corte EDU accoglie una nozione sostanziale,
onnicomprensiva di matrimonio senz’altro ricomprendente anche i rapporti di
fatto, privi di formalizzazione legale, ai quali sì ritiene che l’art. 8 cit.
assicuri incondizionata tutela (cfr., sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro
Belgio; nello stesso senso sentenza 13 dicembre 2007, Emonet ed altri contro
Svizzera, per la quale 'La nozione di famiglia accolta dall’art. 8 CEDU
non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su ulteriori
legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza. La
durata della convivenza e l’eventuale nascita di figli sono elementi
ulteriormente valutabili'. Alle norme della
Convenzione EDU è, ormai, pacificamente riconosciuto il rango di “fonti
interposte”, destinate ad integrare il parametro indicato dall’art. 117 Cost.,
il cui comma 1 impone al legislatore di conformare ìl prodotto normativo agli
obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti
dalla richiamata Convenzione; tuttavia, proprio perché si tratta di norme che
integrano i parametri costituzionali, ma rimangono pur sempre a livello
sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione,
non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle
leggi., Correttamente
dunque si è ritenuto che 'il contrasto tra la rilevanza, agli effetti
penali, della famiglia di fatto nell’ordinamento interno e l’art. 8 Conv, EDU,
come interpretato dalla Corte di Strasburgo, (senz’altro nel segno di una
tutela maggiore rispetto al livello garantito dalla Costituzione Italiana)
appare di solare evidenza; e, d’altro canto, con specifico riguardo agli istituti
di cui agli artt. 384 e 649 c.p., non può omettersi di considerare che le fonti
internazionali aventi efficacia penale in bonam partem sono immediatamente
cogenti per l’interprete, a meno che non si pongano in contrasto con i principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale, e non ne è questo il caso.
Nondimeno, ritiene il Collegio, l’evidenziato contrasto possa essere senz’altro
risolto in via interpretativa, poiché li necessario adeguamento...della
normativa interna a quella sovranazionale (nel senso della completa
equiparazione in bonam partem, ad ogni effetto penale, della famiglia pieno
iure a quella di fatto) non risulta contrario al principi costituzionali
fondamentali interni, e, d’altro canto, proprio il contrasto insorto
nell’ambito della giurisprudenza di legittimità sul tema, impedisce di
ravvisare l’esistenza di un diritto vivente assolutamente ostativo' (così
testualmente Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, cit.). 11. Dunque una
interpretazione sistematica, non in contrasto con la Costituzione e conforme
alle norme della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Ne consegue,
dovendosi applicare nel caso di specie l’art. 384 c.p., comma 1, che la
sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non
costituisce reato. P.Q.M. Annulla senza
rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato. |