Giu Requisiti dei beni paesaggistici identitari
TAR LAZIO - SENTENZA 27 gennaio 2021 N. 1080
Massima
Il solo valore identitario non è di per sé sufficiente per assoggettare un immobile o un’area al vincolo di tutela previsto dall’art. 136, essendo a tal fine richiesto anche, come requisito cumulativo, che si aggiunge al requisito proprio, quello del valore intrinseco dell’oggetto, del sito da tutelare, come “luogo dell’anima” o come “bellezza naturale” che costituisce una condizione indefettibile che non è stata “superata” dalla nuova concezione di paesaggio. È pertanto richiesto un quid pluris, oltre al tradizionale aspetto, alla caratteristica identitaria, anche per classificare il “paesaggio agrario”.

Testo della sentenza
TAR LAZIO - SENTENZA 27 gennaio 2021 N. 1080
Pubblicato il 27/01/2021

N. 01080/2021 REG.PROV.COLL.

N. 13363/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 13363 del 2019, proposto da 
Università degli Studi della Tuscia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco Cataldo, Diego Vaiano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Diego Vaiano in Roma, Lungotevere Marzio 3; 

contro

Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio - Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio Area Metropolitana Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale, , in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Regione Lazio, Provincia di Viterbo, Comune di Viterbo, non costituiti in giudizio; 

per l'annullamento, previa sospensiva:

- del Decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Segretariato Regionale del MIBAC per il Lazio - del 25 luglio 2019, pubblicato sulla G.U., parte II, n. 91 del 3 agosto 2019, recante la dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area denominata “Dal Bullicame e Riello alle Masse di San Sisto” ai sensi dell’art. 136, comma 1, lett. c) e d) del D.Lgs. n. 42/2004, nella parte in cui includono le zone di proprietà dell’Università degli Studi della Tuscia nell’ambito del vincolo paesaggistico;

- di tutti gli allegati al predetto decreto sempre nella parte in cui includono le zone di proprietà dell’Università degli Studi della Tuscia nell’ambito del vincolo paesaggistico;

- della nota del 16 gennaio 2019, prot. n. 898 con cui la Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale ha presentato la proposta di Dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area denominata “Dal Bullicame e Riello alle Masse di San Sisto” avviando il relativo procedimento;

- della nota recante le controdeduzioni formulate dalla Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale alle osservazioni pervenute ai sensi dell’art. 139, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004;

- di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale a quelli impugnati.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero per i Beni e le Attivita' Culturali;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 ottobre 2020 la dott.ssa Floriana Rizzetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;


L’Università ricorrente premette di essere proprietaria di alcune aree (distinte in catasto, come da documentazione versata in atti con l’allegato n. 19) su cui sono siti l’Orto Botanico (superficie di circa 6 ettari) operativo dal 1991), in cui svolge l’attività istituzionale didattica e di ricerca, in particolare di coltivazione di specie vegetali da ogni parte del mondo (circa 20.000 esemplari di circa 2.500 specie) e l’Azienda Agraria Didattico-Sperimentale, attiva dal 1981 (superficie di circa 30 ettari) per la ricerca e studio di tecnologie per il monitoraggio ambientale e la protezione delle colture, con necessità di opere di adattamento del terreno (con aratura in profondità anche superiore a 40 cm concimazione, esecuzione di buche per l’impianto di strutture di sostegno) e modifiche (con creazione di pendenze per studiare fenomeni di deflusso ed erosione mediante simulazioni di pioggia), allestimento di strutture metalliche di raccolta e studio delle precipitazioni, stazione per la misura dei dati climatici etc. 

Lamenta come tali attività sarebbero ostacolate, se non addirittura precluse, dal provvedimento impugnato, con cui l’area in contestazione viene assoggettata a vincolo di tutela, come bene paesaggistico ex art. 136 co. 1 lett. c) e d) d.lgs. n. 42/2004, con riclassificazione negli ambiti del paesaggio di maggior tutela, in parte come “Paesaggio Agrario di Rilevante Valore” ed in parte come “Paesaggio dell’Insediamento storico diffuso” (art. 24 e 31 Norme PTPR).

L’Università rappresenta di aver inutilmente rappresentando nelle proprie osservazioni, ai sensi dell’art. 139, comma 5 del d.lgs. n. 42/2004, che le particelle di sua proprietà non avevano le supposte 'caratteristiche tipiche del paesaggio agrario tradizionale della piana di Viterbo”, e che le limitazioni imposte dal vincolo avrebbero pregiudicato lo svolgimento delle proprie attività istituzionali, impedendo le operazioni colturali che richiedono “arature profonde” e precluso una serie di opere programmate (per le quali erano stati ottenuti finanziamenti pubblici), tra cui la demolizione e ricostruzione di un edificio rurale al fine di realizzare un centro enologico sperimentale, la realizzazione di un tendone con pali in cemento armato per la coltivazione del luppolo, un impianto di pannelli fotovoltaici per le energie da fonti rinnovabili, etc..

Il ricorso è affidato ai seguenti motivi:

1) Violazione e falsa applicazione degli artt. 131, 136 e 140 del d.lgs. n. 42/2004. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della Legge n. 241/1990. Eccesso di potere per carenza dei presupposti, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti.

2) – Eccesso di potere per difetto di motivazione, manifesta contraddittorietà e irragionevolezza. Disparità di trattamento.

3) – Violazione e falsa applicazione degli artt. 131, 136 e 140 del d.lgs. n. 42/2004. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della Legge n. 241/1990. Eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza. Violazione del principio di proporzionalità.

Si è costituita in giudizio l’Amministrazione dei Beni Culturali intimata depositando un rapporto difensivo.

In vista dell’udienza del 21 aprile 2020, la ricorrente ha depositato una memoria di replica.

Con ordinanza collegiale n. 5787/2020 sono stati disposti, a carico di ambo le parti, incombenti istruttori volti a chiarire l’effettivo stato dei luoghi mediante diversi mezzi di rappresentazione visiva e soprattutto le ragioni del vincolo.

A tali incombenti ha ottemperato la ricorrente, depositando una relazione esplicativa sui vincoli e materiale illustrativo, chiedendo, peraltro, di tener conto del comportamento processuale della PA anche ai sensi dell’art 64 CPA. L’Amministrazione ha successivamente ottemperato all’ordinanza in parola, depositando una relazione di chiarimenti e relativa documentazione.

Con memoria conclusionale di replica la ricorrente ha confermato le proprie deduzioni e domande, chiedendo di essere autorizzata al deposito tardivo.

All’udienza del 27.10.2020, udito l’avvocato di parte ricorrente che ha insistito nelle già rassegnate domande e conclusioni, la causa è stata trattenuta in decisione.

Va in via preliminare esaminata l’eccezione di inammissibilità per difetto di interesse sollevata dalla resistente, ove sostiene che l’area in contestazione è già gravata da vincoli, per cui il provvedimento impugnato sarebbe privo di ulteriore effetto lesivo.

L’eccezione va disattesa alla luce dei chiarimenti forniti dalla ricorrente, che ha dimostrato, evidenziando puntualmente su una tabella comparativa, le ulteriori, e più gravose, limitazioni che deriverebbero alla gestione dell’azienda dall’assoggettamento dei relativi terreni da un ulteriore provvedimento di vincolo, che introduce un regime più severo, soprattutto per le prescrizioni imposte, anche in aggiunta alla riclassificazione nell’ambito di paesaggio “dell’insediamento storico diffuso” e “agrario di rilevante qualità” (vedi in particolare le limitazioni relative agli interventi dettagliati a pag. 5 e seg. della relazione illustrativa del ricorrente in ottemperanza all’OCI n. 5787/2020). 

Sempre in via preliminare va precisato che il ricorso in parola non è divenuto improcedibile a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 240/2020 che ha annullato unicamente il PTPR approvato, ma non il provvedimento impugnato, che, come sancito dall’art. 140 co.2 del d.lgs. n. 42/2004 (da qui Codice), “costituisce parte integrante del piano paesaggistico e non è suscettibile di rimozioni o modifiche nel corso del procedimento di redazione o revisione del piano medesimo” e mantiene integra la sua efficacia, che risale sin dalla data della sua pubblicazione ai sensi dell’art. 138 co. 3, e non viene travolto dall’annullamento del PTPR che deve semplicemente limitarsi a recepirlo.

Prima di passare ad esaminare il merito del ricorso, giova premettere un breve richiamo introduttivo alla giurisprudenza, anche della Sezione, che si è formata sul vincolo di area vasta ex art. 136 del Codice all’indomani del PTPR, alla luce dell’evoluzione della nozione di paesaggio e della ricostruzione del sistema di tutela dei beni paesaggistici, al fine di pervenire ad una lettura aggiornata e riattualizzata di quell’orientamento.

Come osservato dalla dottrina post-codicistica, a causa dell’incremento dei provvedimenti di vincolo e dell’aumento dell’estensione dell’area vincolata, che trascende la mera “località” prefigurata dal legislatore del 1939 nell’area vasta, e dell’arricchimento del contenuto di tali provvedimenti con la normativa d’uso (cd. vincolo vestito) destinata ad inserirsi come parte integrante del piano paesaggistico, si è verificata una profonda modificazione del rapporto provvedimento di vincolo/piano, in cui la dichiarazione di notevole interesse pubblico ex art. 136 si è spesso trasformata in una sorta di “minipiano”, finendo per costituirne una specie di “stralcio” concernente l’area considerata.

Questa Sezione ha avuto modo di inaugurare la giurisprudenza sul primo “vincolo vestito” costituito dal DM 25.1.2010, con cui è stato dichiarato bene paesaggistico, ai sensi dell’art. 136 del Codice, l’Agro Romano tra la via Laurentina e Ardeatina – atto con cui è stato avviato un processo di tutela dell’intera Campagna Romana, proseguito con la dichiarazione delle Tenute Storiche di Torre Maggiore con DM 27.10.2017 e di recente con il vincolo della parte tra Via Nettunense e l’Agro Romano apposto con DM 11.3.2020 – risolvendo le numerose controversie intercorse tra il Comune, la Regione, le Associazioni e privati proprietari con una serie di sentenze che hanno definito un quadro di principi per l’interpretazione e l’applicazione delle novità codicistiche.

A distanza di dieci anni da quelle pronunce sono intervenuti nuovi ed ulteriori elementi che meritano di essere considerati con particolare attenzione.

Innanzitutto è stata meglio focalizzata la nozione di paesaggio a seguito dell’analisi delle diverse versioni dell’art. 131 del Codice, in cui è stata approfondita la distinzione tra paesaggio inteso come “forma del territorio” (come percepito nel suo valore identitario dalle Comunità che vi abitano e lavorano, riconoscendo tra i paesaggi anche quelli “della vita quotidiana”, che senza avere caratteri di pregio, “tuttavia raccontano una loro storia e presentano una loro identità”)ed i beni paesaggistici veri e propri (oggetto di tutela del Codice), ulteriormente differenziando, nell’ambito di tale ultima categoria, le “bellezze di natura” contemplate dall’art. 136, di cui è stato di recente rivalutato il valore estetico-percettivo-storico-culturale, rispetto ai beni ambientali - culturali (cd. beni paesaggistici diffusi), tutelati ex lege, per l’appartenenza alle categorie indicate dall’art. 142 (con molti ripensamenti per quanto riguarda l’eventuale “riassorbimento” delle zone di interesse archeologico nell’ambito dei beni ex art. 136), a prescindere da qualunque “pregio intrinseco”, solo in considerazione dell’essere “elementi costitutivi del paesaggio” (di valore identitario in quanto ne determinano la fisionomia).

In particolare quest’ultima distinzione, nell’ambito della composita ed eterogenea nozione di beni paesaggistici, risulta ancora attuale, come si evince dal fatto che l’art. 138 sancisce che “La proposta di vincolo è formulata con riferimento ai valori storici, culturali, naturali, morfologici, estetici espressi dagli aspetti e caratteri peculiari degli immobili o delle aree considerati ed alla loro valenza identitaria in rapporto al territorio in cui ricadono”, in cui la congiunzione “e” ha valore aggiuntivo e non avversativo. Nel regolamento approvato con R.D. 3 giugno 1940, n. 1357 (da qui Regolamento) – le cui previsioni restano in vigore, ai sensi dell’art. 158 del Codice, “fino all'emanazione di apposite disposizioni regionali di attuazione”, “in quanto applicabili”- viene altresì precisato, all’art. 9, che nella scelta se assoggettare o meno a vincolo l’immobile o l’area, si deve tener presente “1) che fra le cose immobili contemplate dall'art. 1, n. 1, della legge sono da ritenersi compresi quegli aspetti e quelle conformazioni del terreno o delle acque o della vegetazione che al cospicuo carattere di bellezza naturale uniscano il pregio della rarità; 2) che la singolarità geologica è determinata segnatamente dal suo interesse scientifico; 3) che a conferire non comune bellezza alle ville, ai giardini, ai parchi concorrono sia il carattere e l'importanza della flora sia l'ambiente, soprattutto se essi si trovino entro il perimetro di una città e vi costituiscano una attraente zona verde; 4) che nota essenziale d'un complesso di cose immobili costituenti un caratteristico aspetto di valore estetico e tradizionale è la spontanea concordanza e fusione fra l'espressione della natura e quella del lavoro umano; 5) che sono bellezze panoramiche da proteggere quelle che si possono godere da un punto di vista o belvedere accessibile al pubblico, nel qual caso sono da proteggere l'uno e le altre.”

Pertanto il solo valore identitario non è di per sé sufficiente per assoggettare un immobile o un’area al vincolo di tutela previsto dall’art. 136, essendo a tal fine richiesto anche, come requisito cumulativo, che si aggiunge al requisito proprio, quello del valore intrinseco dell’oggetto, del sito da tutelare, come “luogo dell’anima” o come “bellezza naturale” (nelle diverse declinazioni del “borgo pittoresco”, del sublime delle vette delle montagne o dell’orrido, della “curiosità” di una bizzarria della natura etc.), che costituisce una condizione indefettibile che non è stata “superata” dalla nuova concezione di paesaggio (che include anche la categoria del “bello di natura” oltre che i beni ambientali diffusi e lo stesso paesaggio-territorio privo di qualità). 

In tale prospettiva è stato opportunamente chiarito che “la eliminazione con la lettera d) del comma 1 dell'art. 136 del riferimento alle bellezze panoramiche 'considerate come quadri naturali', dapprima previsto nell'art. 1 della legge 1497 del 1939 (poi limitato alla sola parola 'quadri' nel d.lgs. n. 490 del 1999), non comporta, di per sé, effetti di limitazione della proprietà privata equivalendo sempre la visione delle bellezze panoramiche a quella di quadri naturali ed essendo perciò siffatta nozione, in quanto ulteriormente esplicativa di un già chiaro contenuto estetico, priva di valenza giuridica aggiuntiva, tanto più essendo rimasta identica la restante parte della disposizione”. È stato perciò ribadito che “il vincolo paesaggistico relativo alle bellezze naturali (art. 136, comma 1, lett. d) del D. Lgs. n. 42/2004) riguarda la bellezza estetica e panoramica offerta dalla natura, il c.d. “quadro naturale”, salvaguarda il panorama e le visuali e protegge “il paesaggio quale interesse pubblico alla tutela della bellezza dei luoghi nel loro insieme, quindi rispetto alla sua fruibilità visiva da parte della collettività” (Cons. Stato, Sez. IV, 19 febbraio 2013, n. 1022).

E ciò vale persino per quei beni paesaggistici “identitari” per eccellenza, quali i centri storici “dal caratteristico aspetto”, di cui all’art. 136 lett. c) del Codice, per i quali la dottrina ha chiarito che l’endiadi “valore estetico e tradizionale” va intesa nel senso del doppio requisito, dovendo il giudizio sul notevole interesse paesaggistico soddisfare non solo il criterio “tradizionale”, ma anche quello “estetico”, trattandosi di requisiti cumulativamente richiesti.

Si tratta di una precisazione che va tenuta in particolare considerazione nel caso in esame, in cui, appunto, il compendio immobiliare dell’Università ricorrente viene ad essere assoggettato a vincolo con il provvedimento in esame proprio ai sensi all’art. 136 lett. c) del Codice, oltre che dell’art. 136 lett. d), come bellezza panoramica o punto di vista panoramico.

È pertanto richiesto un quid pluris, oltre al tradizionale aspetto, alla caratteristica identitaria, anche per classificare il “paesaggio agrario” - cioè quella parte di territorio caratterizzato da “naturale vocazione agricola” - nell’ambito di paesaggio agrario “di rilevante valore”, che presuppone che sia soddisfatto anche l’ulteriore e specifico requisito del “rilevante valore paesistico per l’eccellenza dell’aspetto percettivo, scenico e panoramico”, come precisato dall’art. 24 delle Norme del PTPR.

In conclusione, l’evoluzione recente delle riflessioni sul tema in esame ha progressivamente messo a fuoco l’esigenza di differenziare la gravosità del regime giuridico vincolistico in corrispondenza del grado di valore del bene paesaggistico protetto - che deve rispondere alle ragioni dell’estetica, quale “causa” del vincolo, non riducibili, pertanto, al mero valore identitario dei luoghi, che costituisce solo un motivo “aggiuntivo”, incidente sulla dimensione territoriale della sua rilevanza (per cui alcuni meritano di essere tutelati in funzione della loro rilevanza nazionale, mentre altri sono di interesse solo regionale, o addirittura locale: a parità di spettacolarità della veduta, un conto è l’ermo colle di Leopardi, ed altro conto è, pur con l’analoga configurazione, quella di Colle Amato oppure di Colle Paganello, che sono di particolare “affezione” per il loro valore “identitario” per i fabrianesi, ma non per gli jesini) - facendo implicitamente richiamo ai principi di ragionevolezza e proporzionalità (ad esempio nello scegliere tra sottoporre a vincolo un fondo come bene culturale di tipo archeologico oppure come mera zona di interesse archeologico, oppure tra vincolare un sistema lacuale solo come bene paesaggistico o come bene culturale, nel vincolo di destinazione di uno studio di artista etc.), per evitare di incorrere in quegli “eccessi di tutela” non giustificati (un rischio sempre più incombente in un contesto di crescente espansione delle categorie dei beni da tutela e di intensificazione dell’attività vincolistica) ed addirittura in talune occasioni controproducenti rispetto alle stesse finalità di tutela perseguite.

Tali principi hanno acquisito sempre più considerazione nel settore in esame a seguito della trasformazione del provvedimento di vincolo da atto meramente “dichiarativo” dell’interesse paesaggistico “notevole” ex art. 136 ad atto che prescrive direttamente le modalità di gestione dello stesso, indicandone le trasformazioni e gli usi compatibili (come già previsto dallo stesso legislatore del 1939 e dal regolamento del 1940); tale trasformazione ha reso non più attuale la contrapposizione tra il momento della “valutazione tecnica” (operata sulla base della “monorotaia del solo interesse culturale-paesaggistico”) che caratterizzava la prima fase (in cui l’Autorità è chiamata a verificare le caratteristiche del bene ed il loro grado al fine di “dichiararlo” bene culturale o paesaggistico) – cioè a “verificare” l’esistenza dei “presupposti di fatto” per l’assoggettamento del bene a vincolo (si fa per dire, dato che trattasi di “giudizio di valore” e non di “giudizio di fatto”) - e la successiva fase della “gestione del vincolo” – che attiene propriamente alle “scelte d’azione” – in cui si ammette invece la presenza di un momento di “valutazione discrezionale” anche di altri interessi co-primari concomitanti. 

Anche se l’inclusione nel medesimo Codice tende a sfumare la differenza tra i beni paesaggistici ed i beni culturali, accomunati nella prima fase (quella dell’individuazione ed assoggettamento a vincolo) dall’utilizzo del medesimo strumento giuridico (la cd. “dichiarazione” del loro valore), occorre considerare che, nella seconda fase (quella della gestione del vincolo), sono sottoposti a regimi differenti. I primi, infatti, si caratterizzano per essere costituti da beni che per loro stessa natura non sono destinati esclusivamente ad un mera “fruizione contemplativa” (come nel caso della maggior parte dei beni culturali, quelli mobili), ma per essere sfruttati anche per altre utilità, ove interessino terreni (in primis per attività produttive), che possono essere d’interesse anche generale (a differenza dello sfruttamento edificatorio che risponde all’interesse particolare del solo proprietario). Analogie e differenze che li caratterizzano rispetto ai beni ambientali culturali di cui all’art. 142, che lo stesso legislatore del 1985 aveva considerato anche sotto il profilo della loro naturale destinazione alla fruizione pubblica in quanto “beni comuni”, la cui valorizzazione risponde ad un interesse generale, che viene riproposta dallo stesso Codice.

L’impostazione conservativa della tutela dei beni paesaggistici sancita nell’ultima versione del Codice, unitamente alla perdita di rango del “principio dello sviluppo sostenibile”,rischia di risultare controproducente rispetto alle stesse finalità prefissate, come evidenziato dalla dottrina, specie nei confronti di alcuni tipi di paesaggio – in particolare con riferimento al paesaggio agrario, che costituisce un “bene paesaggistico vivo e dinamico”, che si modifica per il solo agire delle forze della natura – che finirebbero per essere addirittura danneggiati da vincoli troppo stringenti che ne impedissero lo sfruttamento con una sufficiente redditività, determinandone l’abbandono ed il ritorno a selva incolta dei relativi terreni. Pertanto, se da un lato si valorizza l’esigenza di protezione del paesaggio agrario, anche al fine di contenere quel fenomeno di espansione della città verso la periferia (che comporta il parallelo degrado dei centri storici che vengono, per conseguenza, ad essere abbandonati), dall’altro lato, rischia di essere compromesso da vincoli eccessivamente rigidi, che ne limitino la naturale vocazione produttiva, imponendo determinate coltivazioni non più redditizie a causa della globalizzazione dei mercati agricoli, contribuendo al grave fenomeno dell’abbandono dei campi.

Si tratta dei cd. “effetti perversi del vincolo”, che costituiscono una minaccia sia per i beni paesaggistici sia per i beni culturali immobili (esemplare la vicenda del vincolo sull’ex Cinema America) che confermano la ragionevolezza della scelta del legislatore del 1939 di limitare la tutela ai soli beni che presentano valore paesistico o culturale di grado eminente (per cui non è sufficiente un interesse culturale o paesaggistico “semplice”, ma questo deve essere ulteriormente qualificato in considerazione del suo “grado”, che deve essere di rango eminente, come precisato dal legislatore con vari aggettivi: “particolare, rilevante/notevole/non comune” etc.), al fine di scongiurare il rischio di “vincolare tutto per non tutelare nulla”. In tale prospettiva, lo stesso legislatore ha indicato la necessità di fare applicazione, nel procedimento di vincolo, di criteri di valutazione che facessero riferimento al pregio, alla rappresentatività ed alla rarità tenendo conto delle particolari caratteristiche e tipologie del bene da proteggere (specificamente individuati per i beni culturali sin dalla CM 1974 e desumibili per i beni paesaggistici dalla legge 1939 e regolamento del 1940, applicabile fino all’adozione delle norme attuative delle Regioni).

Orbene, alla luce della ricostruzione del sistema di tutela dei beni paesaggistici, come recentemente operata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, risulta agevole affrontare le questioni sollevate dall’Università ricorrente.

Con il primo motivo di ricorso – rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 131, 136 e 140 del d.lgs. n. 42/2004. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della Legge n. 241/1990. Eccesso di potere per carenza dei presupposti, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti” – l’Università ricorrente contesta che la dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area in contestazione, nella parte in cui ricomprende nel perimetro del vincolo paesaggistico l’Orto Botanico e l’Azienda Sperimentale, si fonda su un presupposto erroneo, in quanto la zona non possiede “i presunti caratteri tipici e tradizionali del territorio di cui la stessa sarebbe espressione” 

Al riguardo l’Università ricorrente asserisce che l’ambito territoriale in contestazione non risulta “rappresentativo del contesto geologico e orografico tipico della piana di Viterbo” e non si configura come “un insieme particolarmente armonico di elementi agricoli e naturali, scarsamente antropizzati se non dalla realizzazione di interessanti esempi di insediamenti agricoli tipici, inscindibilmente coniugati con numerose preesistenze architettoniche e archeologiche”. Sostiene che i terreni in contestazione hanno ormai da tempo perso quelle “caratteristiche tipiche” - sia dal punto di vista delle specie botaniche coltivate nell’Orto Botanico (del tutto diverse dalle tipiche colture dell’area viterbese) sia per la struttura dell’Azienda Agraria (divisa in parcelle dai 500 ai 4000 metri quadrati coltivate con diverse specie vegetali e arboree in via sperimentale proprio al fine di valutarne l’adattabilità ad un contesto ambientale diverso da quello dei Paesi di Provenienza) e per le colture ben diverse da quelle tradizionali (si tratta di azienda che sperimenta la possibilità di coltivare specie resistenti a cambiamenti climatici) – richieste dal legislatore per la loro dichiarazione come “bellezze naturali” ai sensi dell’art. 136 del Codice ed assoggettarle ad un regime giuridico comportante particolari limitazioni al suo sfruttamento produttivo.

In tale prospettiva si contesta la classificazione dell’area in parola nell’ambito del “paesaggio agrario di rilevante valore” – in quanto non sussisterebbero “l’eccellenza dell’assetto percettivo, scenico e panoramico” – come richiesto dall’art. 24 del PTPR - trattandosi di territorio caratterizzato dalla “presenza di casali per le esigenze logistiche e gestionali, di un deposito di macchinari, di serre in ferro/vetro e tunnel coperti con film plastico, di un’area all’aperto destinata a stabulario con ricovero per l’allevamento di conigli in gabbia, ovini, caprini e suini” – e nel “paesaggio dall’insediamento storico diffuso”, in quanto in loco sarebbero presenti esclusivamente “frammenti fittili del tutto sporadici” (in particolare si eccepisce che l’unico punto di interesse storico-archeologico è il numero 13).

In conclusione, secondo l’Università ricorrente il provvedimento impugnato sarebbe frutto di grave carenza di istruttoria, in quanto l’Amministrazione non si sarebbe fondata “su fatti concreti e presupposti specifici”, e comunque sarebbe viziato da difetto di motivazione, in quanto, la documentazione a supporto del vincolo non evidenzia “gli elementi di fatto” da cui è scaturito il giudizio di rilevante valore dell’area in contestazione, né la necessità di sottoporla ad ulteriori stringenti limitazioni, oltre a quelle già gravanti su di essa.

Va innanzitutto disattesa la doglianza con cui si lamenta il difetto di istruttoria.

Al riguardo va osservato che, invece, dalla documentazione depositata dalla PA in esecuzione degli incombenti istruttori disposti con ordinanza n. 5787/2020, si evince che l’Amministrazione si è pronunciata sulla base di una documentazione rappresentativa dello stato dei luoghi che risulta completa, e che era già stata acquisita ed esaminata in occasione del precedente intervento vincolistico dell’area come “zona di interesse archeologico” ai sensi dell’art. 142 co. 1 lett m) del Codice, e non inficiata da errori in fatto. A parte l’aerofoto in all. 1 (in cui l’area in contestazione non è stata individuata con esattezza, limitandosi a precisare che si tratta di quella “in basso”, in corrispondenza generica con l’area A della carta catastale di metà 800), dall’ortofoto satellitare (all. 2) si evince chiaramente la localizzazione e la consistenza dei terreni interessati dal vincolo in contestazione, il carattere e l’aspetto che ne caratterizzano la morfologia, con scomposizione dell’area in quattro parti unitarie: quella della sorgente del Bullicame – con le caratteristiche puntualmente evidenziate nella Relazione di accompagnamento al vincolo - al di sotto della quale è sito l’orto botanico – del pari descritto nella medesima Relazione -; dallo stesso lato del Bullicame è sita l’azienda agricola – non oggetto di specifica descrizione nel predetto documento - adeguatamente inquadrabile per la sua caratteristica di terreno pianeggiante, geometricamente diviso in particelle separate, destinate alle diverse coltivazioni, dall’aspetto “comune” dei tanti campi coltivati nella nostra Regione. Sull’altro lato della strada, sorge la collina di Riello, con la necropoli etrusca e la presenza della romana Sorrina Nuova, oggetto di particolare attenzione nella Relazione in parola. 

In sostanza l’azienda agricola è sita tra il Bullicame (a sinistra) e la collina di Riello (a destra), e l’esattezza della sua collocazione, la sua conformazione e la sua consistenza trovano conferma nelle immagini delle riprese satellitari disponibili su google maps e dalla visione dei luoghi tramite la funzione street view, che induce ad escludere eventuali errori per quanto riguarda la percezione dello stato dei luoghi. È del pari pacifica l’inesistenza di errori nella graficizzazione, sia per quanto concerne i vincoli riportati nella tabella B, che mostra l’area interessata prima e dopo il provvedimento impugnato (all. 4), sia per quanto concerne la rappresentazione degli ambiti di paesaggio, oggetto della contestata riclassificazione nel “paesaggio agrario “di rilevante valore” e dell’insediamento “storico-archeologico diffuso” (all. 3).

Ovviamente un conto è l’assenza di errori nella rappresentazione dei luoghi (giudizio di fatto), altro conto è la valutazione delle caratteristiche prescritte dall’art. 136 lett. del Codice quale condizione per assoggettarli ad un regime giuridico particolare a causa del loro interesse pubblico paesaggistico di grado “notevole” (giudizio di valore).

Orbene, sotto tale profilo, l’atto impugnato risulta, in effetti, viziato sotto il profilo del difetto di motivazione denunciato dall’Università ricorrente.

La Relazione di accompagnamento al provvedimento di vincolo, nella premessa, fa riferimento ai principi sanciti dalla Convenzione Europea del Paesaggio e dalla Corte Costituzionale consacrati dall’art. 131 al primo comma, che prevede la tutela del paesaggio come “forma del territorio”. Si tratta di un bene comune molto più ampio – coincidente con l’intero territorio della campagna viterbese visto dall’alto della Città (che consente un’ampia visuale) - rispetto ai “beni paesaggistici” specificamente contemplati dall’art. 131 co.2, che costituiscono lo specifico oggetto di tutela del Codice dei beni culturali e del paesaggio e l’ambito d’azione del Ministero dei Beni Culturali a protezione di quei valori espressi dai beni paesaggistici contemplati dall’art. 134. Tra questi si configura come bene paesaggistico del tutto specifico quello in esame, costituito dalle cd. “bellezze naturali d’insieme” di cui all’art. 136 co. 1 lett. c) e d), per cui è a questa disposizione che il provvedimento di “dichiarazione di notevole interesse pubblico” deve far riferimento, evidenziando, nella relazione che ne costituisce la motivazione, le specifiche caratteristiche previste da tale norma, che costituiscono la “causa” che giustifica l’assoggettamento del bene ad un particolare regime giuridico.

La relazione illustrativa non si presta a fornire adeguato supporto motivazionale per la dichiarazione del “notevole interesse paesaggistico” come cd. “bellezze naturali d’insieme” di cui all’art. 136 co. 1 lett. c) e d) soprarichiamato del vasto compendio immobiliare dell’Università ricorrente (di 30 ha), che costituisce solo una piccola parte dell’area vasta vincolata (di 1600 ha) che dalle mura civiche si estende fino al Comune di Vetralla.

Per quanto concerne la parte più di interesse, la relazione si diffonde in considerazioni in merito alla notorietà della sorgente del Bullicame – che ha acquisito valore simbolico universale grazie alla Divina Commedia – ed all’interesse delle “innumerevoli presenze collocate in adiacenza della storica sorgente” e dell’interesse archeologico della necropoli etrusca sulla vicina collina di Riello – in epoca medievale destinata a sepoltura degli Ebrei e dell’insediamento romano di Sorrina di cui sono stati rinvenuti suoi calendari e undici epigrafi. Non viene invece evidenziato alcun aspetto di particolare interesse relativo a siti ricadenti nell’estesa proprietà di 30 ettari dell’azienda agricola sperimentale (probabilmente al pari degli altri terreni in epoca medioevale destinata a sfruttamento delle acque e coltivazioni a lino e canapa, che costituiva un’eccellenza della Citta, cfr. pag. 17), a differenza, ad esempio, di quella oggetto dell’intervento di bonifica in località Risiere, ritenuto invece degno di menzione – pur ammettendo l’analogia con l’analogo paesaggio agrario dell’Ente Maremma sulla costa tirrenica – come testimonianza della trasformazione del paesaggio in epoca ottocentesca-novecentesca. All’Orto Botanico è dedicata appena qualche riga, in considerazione dell’aspetto naturalistico. Evidentemente la Relazione non si è diffusa altre parti della proprietà dell’Università perché ha ritenuto i terreni dell’azienda di scarsa rilevanza nell’impostazione generale della misura vincolistica, com’è confermato dall’assenza di immagini relative a tale sito nella documentazione fotografica allegata al DM impugnato (elaborato n. 4).

Nell’ambito del procedimento di esame delle osservazioni, l’Amministrazione s’è opposta alle richieste della ricorrente di escludere dal perimetro dell’area vincolata i terreni utilizzati dall’Università per fini istituzionali e di declassare l’ambito di paesaggio, difendendo le ragioni del vincolo nei seguenti termini: “L’area (…) pur non presentando a pieno le caratteristiche paesaggistiche omogenee con le aree circostanti (..) è intesa ad assicurare la conservazione dei valori espressi dagli aspetti e caratteri peculiari del territorio considerato nella sua unitarietà. Pertanto lo stralcio dell’area di proprietà dell’Università degli Studi della Tuscia comporterebbero una destrutturazione dell’area ed una sottrazione non coerente con gli obiettivi conservativi prefissati, indebolendo l’obiettivo di tutela e salvaguardia posto, creando un fattore di discontinuità e pregiudizio per la conservazione e valorizzazione del territorio (…) in palese contrasto con gli obiettivi di tutela prefissi dalla Dichiarazione”.

È evidente che il giudizio sul valore paesaggistico del sito, così formulato, anche considerando la motivazione per relationem alla relazione illustrativa (sopraesaminata), risulta generico e tautologico, in quanto dà per presupposto ciò che invece dovrebbe essere dimostrato, cioè l’appartenenza di tali terreni ad un complesso unitario, che ne giustifica l’inclusione nell’area vincolata a prescindere dalle caratteristiche che questi di per sé presentano. Pertanto non soddisfa quell’onere motivazionale che la giurisprudenza in materia intende in senso molto rigoroso in particolare nel caso di assoggettamento al vincolo di area vasta, ai sensi dell’art. 136 d.lgs. n. 42/2004 (vedi, in tal senso, anche di recente e persino nei confronti di località di notorio valore paesaggistico, quali l’Agro Romano, Cons. St., sez. VI, n. 2309/2018). 

Né a tale carenza motivazionale è stato posto rimedio in corso di giudizio (ed a prescindere dalla questione dell’ammissibilità della motivazione postuma per tali provvedimenti), non essendo a tal fine sufficiente limitarsi a menzionare la “rilevanza di un pattern paesaggistico costituito da tessere di mosaico a carattere sinuoso e irregolare (…) che si lega strettamente alle conformazioni paesaggistiche delle restanti aree agricole ugualmente tutelate”. Una simile caratteristica, infatti, può valere, semmai, a qualificare l’orto botanico, sito in prossimità della Sorgente, di cui può eventualmente costituire un’appendice di completamento della visuale. Però la descrizione soprariportata non si attaglia all’azienda sperimentale, che, invece, non è stata oggetto di specifica considerazione sotto il profilo delle caratteristiche paesaggistiche contemplate dall’art. 136 lett. c) e d) del Codice, né nella Relazione illustrativa della proposta di vincolo, né in quella di accompagnamento al provvedimento dichiarativo, né nelle controdeduzioni della PA alle osservazioni della ricorrente, né nel rapporto difensivo prodotto in giudizio, né nella relazione di chiarimenti al riguardo, richiesta dall’ordinanza istruttoria n. 5787/2020 (che, non a caso, consentiva all’Amministrazione di illustrare “il particolare valore paesaggistico-ambientale espresso dall’area in questione”, anche mediante una rappresentazione non cartacea dei luoghi, mediante immagini riprese dal vivo raffiguranti “da diversi punti di vista dell’effettivo stato dei luoghi”, con particolare riferimento alla “rappresentazione dei panorami dalle diverse visuali interessate dal vincolo”, ammettendo, a tal fine, il ricorso a “qualunque altro elemento utile”).

In conclusione, allo stato degli atti, non è possibile ricostruire i motivi per cui il compendio immobiliare in contestazione meriti di essere assoggettato a tutela quale “bellezza naturale”, non essendo ravvisabili nell’azienda agricola universitaria, che si estende su terreno totalmente pianeggiante, gli elementi previsti dall’art. 136 lett. d) per la inclusione tra “le bellezze panoramiche [considerate come quadri] e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze” (come si evince dalla serie di fotografie depositate dalla ricorrente che rappresentano i terreni dell’azienda agricola da diversi punti di vista: dalla Collina di Riello, dalla Strada Tuscanese, dalla Strada del Bullicame, nonché le specifiche sezioni interessate dalle varie coltivazioni; dalla vista dall’alto e scorci dell’Orto Botanico; dall’areofoto in all. 23, la cui lettura è agevolata dalla possibilità di completarla con l’areofoto depositata dalla resistente in all.2; nonché dalla serie di 12 foto - tav 6 delle osservazioni - che rappresentato vedute dell’azienda agricola da ben dodici diversi punti di vista, siti “a corona” tutto attorno all’immobile). 

Né dalla documentazione agli atti è evincibile la presenza di elementi che possano indurre a ravvisarvi quel “complesso di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”, contemplato dall’art. 136 lett. c del Codice, risultando i luoghi in contestazione raffigurati nelle immagini prodotte come un insieme di appezzamenti geometrici di terreno, variamente coltivati, che si “caratterizzano” per il comune aspetto di “campi coltivati come tanti” presenti nella campagna laziale, privi di peculiarità specifiche o di evidente pregio intrinseco. Tanto meno è ravvisabile la sussistenza di quell’unitarietà di contesto paesaggistico affermata in modo generico ed assiomatico dall’Amministrazione, e non confortata dalla rappresentazione dei luoghi stessi, che, proprio per la loro dimensione (che si estende per ben 30 ettari) e conformazione (terreno totalmente pianeggiante), rendono arduo ravvisare quel nesso di continuità percettiva che giustifica l’assoggettamento a vincolo di un’enorme porzione di territorio. Un vincolo di tale estensione può essere ritenuto legittimo, non esorbitante, solo ove risulti “necessario” per non infrangere quel rapporto delle singole parti con l’insieme di appartenenza, che costituisce l’unicum oggetto di tutela. Ma la rispondenza a tale condizione avrebbe dovuto essere puntualmente argomentata - come evidenziato nelle controversie sul vincolo dell’Agro Romano – mentre, nel caso in esame, è stato solo genericamente ed assiomaticamente affermato sostenendo che lo stralcio dei terreni dell’azienda agraria “comporterebbe una destrutturazione dell’aerea e una sottrazione non coerente con gli obiettivi conservativi prefissati”. 

Né risulta a tal fine sufficiente precisare che il fondo “si lega strettamente alle conformazioni paesaggistiche delle restanti aree agricole ugualmente tutelate” - non essendo la presenza di vincoli su altre aree utile per dimostrare, omesso ogni passaggio intermedio, l’esigenza di includere nel perimetro di tale tutela anche l’area in contestazione che dista anche 30 ettari da quelle - oppure riferirsi “all’alternanza in situ di porzioni di territorio a valore storico archeologico e a vocazione agricola” - che costituisce una situazione tipica di moltissima parte del territorio laziale e che è già stato considerato quale presupposto per l’assoggettamento a tutela come bene paesaggistico ex lege, quale zona di interesse archeologico, ai sensi dell’art. 142 lett m).

Peraltro l’esistenza di altri vincoli, incombenti sulle aree “adiacenti” a quella in contestazione (su cui insiste anche un vincolo naturalistico a tutela del fosso), riportati nella stessa Relazione – ove si riferisce che “le aree ricomprese tra la sorgente del Bullicame e la strada Riello sono interessate da importanti presenze archeologiche, per cui proprio la presenza di più vincoli sulla stessa area” – avrebbe semmai dovuto essere presa in considerazione per verificare la necessità dell’ampliamento dell’area tutelata e dell’assoggettamento dell’area in questione ad ulteriori vincoli. In una prospettiva di ragionevolezza e proporzionalità l’imposizione di un vincolo aggiuntivo avrebbe dovuto essere preceduta da un’attenta valutazione dell’operatività di quelli già esistenti, per stabilire se e quanto consentano di assicurare un’adeguata tutela al bene in contestazione, approfondendo, in un’ottica comparativa delle diverse misure alternative possibili, se e come la nuova misura risulti a tal fine “necessaria” (secondo test di proporzionalità), non potendo la stessa finalità essere conseguita con la misura di protezione alternativa più lieve (cioè come zona di interesse archeologico). Non solo, ma senza anticipare in questa sede profili che saranno oggetto di approfondimento in sede di esame del terzo mezzo di gravame, l’Amministrazione avrebbe dovuto attentamente considerare tutte le conseguenze discendenti dall’aggravamento del regime di vincolo, che comporta il sacrificio di importanti interessi pubblici la cui cura rientra tra i compiti istituzionali dell’Università, che avrebbero meritato di essere attentamente ponderati (terzo test di proporzionalità).

In conclusione, allo stato degli atti, l’impugnato provvedimento di vincolo ex art. 136 Cod. BBCC risulta affetto dal denunciato deficit motivazionale e merita, già solo per questo motivo, d’essere annullato.

Il riconoscimento della fondatezza di tale censura comporta l’assorbimento delle doglianze dedotte con il secondo mezzo di gravame – rubricato “Eccesso di potere per difetto di motivazione, manifesta contraddittorietà e irragionevolezza. Disparità di trattamento” –in cui denuncia innanzitutto l’eccesso di potere per contraddittorietà della motivazione (l’Università ricorrente evidenzia che, una volta che la PA aveva riconosciuto, in sede di esame delle osservazioni, la mancanza di omogeneità delle caratteristiche paesaggistiche dell’intera area in contestazione, avrebbe dovuto necessariamente trarne, come logica conseguenza, la necessità di escluderle dal perimetro dell’area da tutelare, anziché rigettare la richiesta di stralcio).

Va invece respinta la censura – dedotta sempre con il secondo mezzo di gravame- con cui si denuncia la disparità di trattamento, lamentando la contraddittorietà dell’azione vincolistica del Ministero che ha tenuto conto dell’evoluzione del paesaggio con riguardo ad alcuni terreni (in particolare nell’area attigua, interessata dall’aeroporto), mentre non avrebbe considerato l’attualità dei fondi della ricorrente.

La doglianza è infondata in quanto non è stata dimostrata la condizione fondamentale per poter ravvisare un trattamento discriminatorio, e cioè l’asserita omogeneità dello stato dei luoghi. Anzi tale condizione non risulta riscontrabile dalla documentazione agli atti, almeno a quanto si evince dalla rappresentazione delle foto aeree disponibili su google maps, che raffigura l’area in questione con caratteristiche di area “più compromessa”, che ben possono giustificare una diversa classificazione paesaggistica. A tal fine, peraltro, va considerata anche la diversa collocazione rispetto al bene principale (sorgenti del Bullicame), elemento che può risultare determinante al fine della sua “lettura” come appartenente o meno ad un unico contesto visivo. 

Inoltre, come chiarito nella memoria difensiva dell’Amministrazione, la classificazione nell’ambito di paesaggio “più concessivo” dell’area aeroportuale, non è dipeso solo dall’aspetto paesaggistico differente di quest’ultimo luogo, ma anche dalla sua diversa valenza storica, dato che solo la parte di interesse della ricorrente è interessata dalle presenze archeologiche in adiacenza del Bullicame, oltre che dalla considerazione delle specifiche esigenze connesse alla difesa nazionale.

In conclusione, non vi sono ragioni per ritenere che la diversa zonizzazione sia dovuta ad una discontinuità dei criteri di valutazione ovvero ad una ingiustificata discriminazione nella ponderazione degli interessi investiti dal vincolo, sicché la doglianza va disattesa.

Con il terzo mezzo di gravame – rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 131, 136 e 140 del d.lgs. n. 42/2004. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della Legge n. 241/1990. Eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza. Violazione del principio di proporzionalità” - la ricorrente lamenta l’omessa ponderazione del contrapposto interesse pubblico perseguito dall’Università, che verrebbe ad essere totalmente sacrificato dall’assoggettamento a vincolo di aree mediante le quali realizza scopi istituzionali di didattica, di ricerca e di divulgazione scientifica.

La questione sollevata dalla ricorrente può essere agevolmente risolta alla luce della ricostruzione delle recenti tendenze della dottrina e dell’evoluzione della giurisprudenza sopra esaminata nelle premesse introduttive.

Come già sopra ricordato il principio di proporzionalità è stato sin da tempi risalenti impiegato (anche senza far espressa menzione del termine) nelle pronunce sui vincoli d’area vasta e come tale è stato applicato nelle sentenze sull’Agro romano (confermate dal Consiglio di Stato vedi, tra tante, Cons. St., sez. VI, n. 7004 e 7005 del 2011; nn. 18, 119, 120/2013) che hanno riconosciuto la legittimità del provvedimento che dichiarava di notevole interesse paesaggistico come “bellezza naturale d’insieme”, ai sensi dell’art. 136 Codice, un’intera porzione dell’Agro Romano rimasta libera tra via Laurentina e via Ardeatina. In quell’occasione è stato ritenuto che, nonostante la sua vasta estensione, la misura vincolistica non potesse essere considerata “esorbitante” in quanto risultava “commisurata” alla dimensione stessa del sito da proteggere (che, storicamente, nell’arte e nella letteratura occupava una grande parte della Campagna Romana Meridionale con lo sfondo dei Castelli Albani), e non “eccessiva” rispetto a quanto necessario al fine di assicurarne la protezione. Date le particolarissime caratteristiche del sito, anche ove includeva parti di per sé prive di particolare valore, è stata ritenuta l’inidoneità di un “ritaglio” di paesaggio a rappresentare e testimoniare il valore di quei “luoghi unici al mondo”, che non erano suscettibili di essere protetti “a macchie di leopardo” (non si trattava semplicemente di un bel paesaggio campestre, bensì di un paesaggio “storicizzato”, raffigurato dai pittori della Scuola della Campagna Romana dell’Ottocento, che considerava, nel suo complesso, un luogo dell’anima, “riconoscibile” testimonianza della Civiltà europea, come articolatamente illustrato nella relazione di accompagnamento a quel decreto di vincolo). 

Proprio in considerazione dell’assoluta rilevanza del bene in parola, è stato ritenuto meritevole di essere protetto anche a costo di sacrificare contrapposti interessi, non solo quelli economici dei privati interessati allo sfruttamento economico del territorio (costruttori edili che volevano realizzare un intenso programma edificatorio), ma persino interessi pubblici concomitanti di notevole rilevanza, quale quello di fornire alloggi a canone moderato (le aree interessate erano state destinate al cd. housing sociale).

Nel periodo in cui sono state rese quelle pronunce, peraltro, era assolutamente evidente l’esigenza di salvaguardare dalla speculazione edilizia un’area residua della Campagna romana che altrimenti sarebbe stata cementificata fino a Pomezia, come evidenziato nella Relazione al vincolo e come precisato nella motivazione delle sentenze, in cui veniva ben evidenziata la legittimità dell'intervento dello Stato nell’interesse superiore a tutelare il bene messo a rischio dalla violazione del dovere di leale collaborazione, rilevando che né il Comune di Roma, nell'ambito del procedimento di approvazione del PRG, né la Regione, nell'ambito del procedimento di adozione del PTPR, avevano preso in considerazione le osservazioni della Soprintendenza, privilegiando gli interessi meramente economici di pochi a danno della generalità dei cittadini (TAR Lazio, sez. II quater, da 33362 a 33365 del 2010). 

Ben diverso è il caso in esame, in cui – in disparte ogni comparazione in ordine alla rilevanza delle località interessate – non si tratta di salvaguardare un paesaggio agrario dalla minaccia dell’incombente urbanizzazione, bensì di tutelare un’area, che, proprio a causa del vincolo, potrebbe rischiare di perdere quelle qualità di paesaggio agrario “di rilevante valore” che si vorrebbero salvaguardare, data l’incombente minaccia dell’abbandono delle coltivazioni. Si tratta di un rischio di cui si dà atto nella stessa relazione, ove menziona la formazione di “zone di degrado (microdiscariche abusive di rifiuti diffuse), favorite anche dall’abbandono e inselvatichimento di alcune parti dei terreni” e che avrebbe meritato di essere attentamente ponderato. Si tratta di criticità che sono state ripetutamente evidenziate con riferimento alla tutela del paesaggio agrario che, come ricordato nelle premesse, può mantenere integro il suo valore solo grazie al continuo intervento del lavoro dell’uomo e rischia di essere irreparabilmente perduto sia dall’espansione dell’urbanizzazione, sia dalla notoria mancanza di redditività dell’attività primaria a causa della globalizzazione del mercato agricolo (aspetto, quest’ultimo, che comporta ulteriori rischi per l’interesse generale nel caso in cui si verifichino eventi eccezionali che possano ridurre il traffico dei beni alimentari) e dai cambiamenti climatici che mettono comunque in crisi le “coltivazioni tradizionali” (aspetto, anch’esso meritevole di particolare ponderazione, dato che costituisce proprio un obiettivo di studio specificamente perseguito dall’azienda sperimentale condotta dall’Università resistente).

In tale prospettiva, l’adozione del provvedimento di vincolo ex art. 136 del codice dei beni culturali e paesaggistici deve tener conto di quelle esigenze di ragionevolezza e proporzionalità che trovano espressione nella sua stessa formulazione letterale, che, proprio per individuare un “giusto punto di equilibrio” tra i diversi interessi in gioco, esige, per la sottrazione del bene alla sua naturale destinazione, che questo rivesta non solo interesse paesaggistico come “bellezza naturale” secondo le categorie declinate dalla stessa disposizione, ma che questo sia presente in grado “notevole” (come già indicato dal legislatore del 1939 e dal regolamento del 1940), proprio perché il “sacrificio” imposto ad altri interessi (in questo caso di rilevante interesse pubblico essi stessi) deve trovare una “ragione adeguata” nell’esigenza di assicurare la tutela di un bene giuridico di valore preminente, che non può essere offerta altrimenti, e che costituisce la “giusta causa” del provvedimento di vincolo.

In conclusione il provvedimento impugnato risulta affetto dalla carenza motivazionale denunciata con il primo e dalla mancata ponderazione lamentata con il terzo mezzo di gravame, per cui il ricorso va accolto con conseguente annullamento, per l’effetto, dell’atto impugnato; sono fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione.

Sussistono giusti motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla gli atti impugnati.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 ottobre 2020 con l'intervento dei magistrati:

Donatella Scala, Presidente

Floriana Rizzetto, Consigliere, Estensore

Marco Bignami, Consigliere

 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Floriana Rizzetto Donatella Scala
 
 
 
 
 

IL SEGRETARIO