Dot CASS. CIV. 9 MARZO 2021 N. 6497 - Ampiezza e limiti dell'obbligo di repèchage
CASS. CIV. 9 MARZO 2021 N. 6497
Ampiezza e limiti dell'obbligo di repèchage
Martina Liaci - Abilitata all’esercizio della professione forense – Cultrice della materia in diritto privato – Università del Salento – Direttore dei servizi generali ed amministrativi

Testo della sentenza

Cass. civ. 9 marzo 2021 n. 6497

 

Ampiezza e limiti dell'obbligo di repèchage

di Martina Liaci

Abilitata all’esercizio della professione forense – Cultrice della materia in diritto privato – Università del Salento – Direttore dei servizi generali ed amministrativi

 

  1. I criteri di scelta

 

L'implicazione più importante del principio della extrema ratio come formula riassuntiva dell'obbligo di repèchage, è che il giudizio in ordine alla sussistenza di un g.m.o. non si arresta alla verifica della sussistenza delle ragioni addotte dal datore di lavoro.

Di fatti, come è stato osservato[1], il fatto che è alla base del g.m.o. è un dato complesso. La giustificazione del licenziamento richiede la dimostrazione di una "serie causale" complessa al fine di dimostrare la sussistenza di ragioni organizzative necessarie e sufficienti per giustificare il licenziamento. Si richiede cioè una valutazione che non si limita al fatto posto alla base del licenziamento, ma che ne verifica, oltre alla connessione causale con la soppressione del posto, anche la "adeguatezza" o la sua "consistenza" e la sua natura "non transitoria e stabile".

Sicché il vaglio del giudice non può limitarsi ad un mero "controllo sulla effettività" del g.m.o.[2], ossia ad un controllo sulla veridicità dell'allegazione datoriale (ex art. 5, L. n. 604/1966) in base alla quale il recesso trova giustificazione esclusivamente in una scelta organizzativa che coincide con (e si esaurisce nella) eliminazione del posto di lavoro ricoperto dal prestatore[3].

Alla base del giudizio in ordine alla sussistenza di un g.m.o. vi è invece, un giudizio che si potrebbe definire di proporzionalità tra le ragioni dell'organizzazione e quelle del lavoratore, giudizio che è condotto sul filo del bilanciamento tra diversi diritti costituzionali e precisamente tra libertà di iniziativa economica e privata garantita dall'art. 41, comma 1, Cost. e il diritto al lavoro di cui all'art. 4 Cost.

In definitiva, il licenziamento deve costituire una soluzione congrua e adeguata al presupposto fattuale esterno[4].

In tale ottica si pone l'utilizzo di criteri di scelta nei casi concreti, come quello oggetto della sentenza in esame, in cui "il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile".

È evidente che in questi casi la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non può essere totalmente libera, dovendosi individuare un preciso nesso di causalità fra la decisione organizzativa aziendale di base e il licenziamento "di quel determinato lavoratore"[5].

La giurisprudenza ha esteso dunque, al licenziamento per g.m.o. l'applicazione dei criteri di scelta previsti dall'art. 5, L. n. 223/1991, per i licenziamenti collettivi. Tali criteri, contemplati in via sussidiaria rispetto a quelli eventualmente contenuti in contratti collettivi, consistono nei carichi di famiglia, nell'anzianità e nelle esigenze tecnico, produttive e organizzative.

Non è affatto certo, però, se questa estensione debba ritenersi necessaria in quanto derivante da un'applicazione analogica della disciplina dei licenziamenti collettivi, o sia semplicemente una delle possibili opzioni a disposizione dell'imprenditore in applicazione dell'art. 1375 c.c., quindi sindacabile dal giudice.

Nella sentenza in commento la Cassazione pare propendere per la seconda ipotesi. Di fatti, secondo la Suprema Corte, la scelta datoriale "risulta limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza cui deve essere informato, ex artt. 1175 e 1375 cod. civ., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio" e da ciò "può" (e non deve necessariamente) "conseguire una applicazione analogica, pur se nella diversità dei relativi regimi, dei criteri previsti dalla legge 223/1991, nell'articolo 5".

Invero, tale interpretazione risulta coerente con quella adottata dalla Corte in altre pronunce, laddove, disattendendo la preferibile applicazione analogica dell'art. 5, L. n. 223/1991 e ampliando la libertà del datore, si ammettono criteri ulteriori come quello del possesso di altri redditi, della produttività individuale o, addirittura, del costo del lavoratore[6].

Sarebbe invece, preferibile l'applicazione dei criteri di scelta in via analogica[7], proprio sul rilievo che l'utilizzo dei tali criteri, attenuando il rischio di espulsione arbitraria di lavoratori per profili personali, costituisce un'applicazione del principio di proporzionalità, volto a realizzare un contemperamento di interessi tra datore e lavoratore.

 

 

  1. Ampiezza e limiti dell'obbligo di repèchage

 

 

Posta la rilevanza dell'obbligo di repèchage nella fattispecie del g.m.o. di licenziamento, resta da verificare quale ne sia l'ampiezza, ovvero il novero delle mansioni per cui possa esigersi la ricollocazione.

Il datore di lavoro, provati la ragione e il nesso causale, non potrà legittimamente licenziare il lavoratore se non abbia anzitutto verificato la possibilità di adibirlo a mansioni equivalenti a quelle soppresse[8].

Nel vigore dell'art. 2103 c.c. anteriore alla riforma del 2015, l'equivalenza intesa in senso professionale, induce la giurisprudenza a limitare l'obbligo di ripescaggio a mansioni che siano compatibili con l'esperienza maturata dal lavoratore nel corso del rapporto di lavoro, essendo irrilevanti competenze astrattamente possedute dal lavoratore - per es. derivanti da titolo di studi - che non ineriscano all'oggetto del contratto.

Ed essenzialmente sulla base di tale principio la giurisprudenza ritiene insussistente l'obbligo del datore di lavoro di riadattare la professionalità del lavoratore al fine di consentirgli di svolgere nuove mansioni[9].

Nel corso del tempo però, la giurisprudenza, ha esteso la verifica del ripescaggio, in assenza di mansioni equivalenti, anche a mansioni inferiori.

Questo orientamento ha origine in una nota sentenza delle Sezioni unite[10], che per vero, concerneva una fattispecie di inidoneità fisica sopravvenuta alle mansioni, ma il principio è stato applicato ad ogni ipotesi di g.m.o. Ciò in base al fatto che da un lato, l'art. 2103 c.c. non preclude il passaggio a mansioni inferiori quale alternativa al recesso; dall'altro, e correlativamente, per l'accezione del licenziamento quale extrema ratio tra le scelte organizzative datoriali.

Sicché il datore di lavoro "è tenuto a prospettare al lavoratore la possibilità di un impiego in mansioni inferiori quale alternativa al licenziamento ed a fornire la relativa prova in giudizio"[11].

Inoltre, bisogna considerare che il datore è tenuto a provare l'inutilizzabilità del lavoratore licenziato anche in posizioni esistenti in unità diverse da quella di appartenenza, dunque in tutte le unità esistenti ed eventualmente dislocate sul territorio nazionale, mentre è al momento minoritario l'orientamento che spinge a prendere in considerazione l'assegnazione a unità produttive estere o ad altre società del gruppo[12].

Non è chiaro se all'adibizione a mansioni inferiori possa conseguire la diminuzione di retribuzione corrispondente al nuovo livello di inquadramento[13] o se debba conservarsi quello di provenienza. Invero, pere che il trattamento originario venga riservato, salvo naturalmente patti migliorativi, perlopiù ai casi espressamente previsti dalla legge, accomunati dall'esigenza di protezione di soggetti in condizioni particolari[14].

È indubbio che, per quanto attiene alle mansioni equivalenti, la nuova formulazione dell'art. 2103 c.c., come modificato dall'art. 3, D.Lgs. n. 81/2015, abbia ampliato l'area delle mansioni esigibili oltre quelle di assunzione, fino ad abbracciare le mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria contrattuale.

In sostanza, però, il fatto che il legislatore con il D.Lgs. n. 81 del 2015 abbia ampliato l'ambito di esercizio dello ius variandi, non incide sui confini dell'obbligo di ripescaggio, nella misura in cui esso si era già propagato, come appena visto, anche alle mansioni inferiori.

Tuttavia, proprio in relazione all'adibizione a mansioni inferiori, la novella legislativa sembra, per alcuni aspetti, poter incidere sull'obbligo di ripescaggio[15].

In primis, si potrebbe ritenere che per l'adibizione a mansioni inferiori, "rientranti nella medesima categoria legale", non sia più necessario procurarsi il consenso del lavoratore, così come non lo è quando l'assegnazione è a mansioni equivalenti.

Infatti, quello che il nuovo art. 2103, comma 2, c.c. prefigura come un mutamento di mansioni nell'interesse datoriale, potrà atteggiarsi anche come un mutamento di mansioni nell'interesse del lavoratore, altrimenti destinato al licenziamento.

E questo sembra anche implicare il rispetto della condizione posta dalla norma per tale mutamento inpeius, ossia la conservazione del trattamento retributivo in godimento.

Qualora invece le mansioni disponibili siano inferiori per più di un livello a quelle svolte, il reinserimento in esse dovrà essere formalizzato secondo le modalità del comma sesto dell'art. 2103, quindi col consenso del lavoratore e in una delle sedi di assistenza previste dall'ordinamento. In questo caso la modifica in peius delle mansioni attiene sia al livello di inquadramento che al correlativo trattamento economico. Tale disciplina si applica per espressa previsione dell'art. 2103, comma 6, c.c. che infatti, delinea il proprio ambito di applicazione con riguardo a specifiche finalità, tra le quali rientra quella della "salvaguardia dell'occupazione".

Infine, occorre valutare l'impatto dell'obbligo di formazione previsto ("ove necessario") in caso di mutamento di mansioni dal comma 3, dell'art. 2103 c.c. sull'obbligo di repèchage. Potrebbe ritenersi che il datore sia tenuto a ripescare il lavoratore anche in quelle posizioni di lavoro alle quali egli potrebbe essere riassegnato solo previa riqualificazione professionale in senso proprio[16]. Ciò sul rilievo che anche sotto questo profilo, il mutamento di mansioni nell'interesse datoriale possa atteggiarsi nell'interesse del lavoratore. E del resto, tale soluzione risulterebbe coerente col principio della extrema ratio del licenziamento per g.m.o.

 

 

  1. Cass. n. 6497/2021

Occorre richiamare la sentenza della Cass. 6497/2021, poiché afferma che, in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, il datore di lavoro è tenuto, ai fini della legittimità del recesso, a verificare la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori, nonché ad adottare, qualora ricorrano i presupposti di applicabilità dell'art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, sia idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all'impresa, anche attraverso una valutazione comparativa con le posizioni degli altri lavoratori, fermo il limite invalicabile del pregiudizio alle situazioni soggettive di questi ultimi aventi la consistenza di diritti soggettivi. 

Il lavoratore divenuto inabile alle mansioni specifiche, dunque, può essere assegnato, ai sensi dell'art. 42, d.lgs. n. 81 del 2008, anche a mansioni equivalenti o inferiori; nell'inciso "ove possibile" si contempera "il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell'impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l'obbligo di ricercare - anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto - le soluzioni che, nell'ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore e lo grava, inoltre, dell'onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l'attuazione dei detti diritti.

Si specifica, inoltre, che ai fini dell'adempimento dell'obbligo previsto dall'art. 3, co. 3-bis, D.Lgs. n. 216 del 2003, non è sufficiente per il datore allegare e provare che non siano presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, sovrapponendo la dimostrazione circa l'impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con il suo stato di salute con il distinto onere di ricercare altre soluzioni ragionevoli (accomodamenti ragionevoli), né tanto meno è sufficiente limitarsi ad affermare che di accomodamenti praticabili non ve ne siano, lamentando che il lavoratore non ne abbia individuati.

Il datore di lavoro, pertanto, ha l'onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso, ai sensi dell'art. 5 della l. n. 604 del 1966, dimostrando non solo il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l'impossibilità di adibirlo a mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, ma anche l'impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli, con la possibilità di assolvere tale ultimo onere mediante la deduzione del compimento di atti o operazioni strumentali all'avveramento dell'accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari presuntivi, idonei a indurre nel giudice il convincimento che il datore di lavoro abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata in grado di scongiurare il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica di un lavoratore addetto a un servizio di autolinee, per essersi il datore di lavoro limitato ad affermare l'impossibilità del "repêchage", adducendo l'assenza di posti disponibili nell'organigramma della biglietteria e del lavaggio autobus).

 

 


[1] Ballestrero, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Una rilettura della giurisprudenza della Cassazione alla luce della riforma dell'art. 18, in Lav. dir., 2013, 559 ss. 

[2] L'effettività della soppressione si desume per es. dall'esternalizzazione in appalto delle attività svolte dal lavoratore (Cass. civ. 28 ottobre 2013, n. 24259); o con affidamento ad un lavoratore autonomo (Cass. civ. 9 luglio 2012, n. 11465); o a un religioso (Cass. civ. 5 settembre 2008, n. 22535); o dalla chiusura di determinate filiali con affidamento del lavoro ad agenti (Cass. civ. 2 novembre 2011, n. 22691).

[3] Perulli, Giustificato motivo oggettivo, soppressione del posto e paradigma del diritto del lavorocontra M. Marazza, Giustificato motivo oggettivo di licenziamento e "controllo di pretestuosità", entrambi in A. Perulli (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: giurisprudenza e dottrina a confronto, cit.

[4] Perulli, Razionalità e proporzionalità nel diritto del lavoro, in Diritto del lavoro e nuovi problemi, Padova, 2015, 217 ss.

[5] Cass. civ. n. 25201/2016, cit. "Infine deve sempre essere verificato il nesso causale tra l'accertata ragione inerente l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro come dichiarata dall'imprenditore e l'intimato licenziamento in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all'operata ristrutturazione. Ove il nesso manchi, anche al fine di individuare il lavoratore colpito dal recesso, si disvela l'uso distorto del potere datoriale, emergendo una dissonanza che smentisce l'effettività della ragione addotta a fondamento del licenziamento". In dottrina cfr. Pera, I licenziamenti nell'interesse dell'impresa, Relazione al Convegno dell'Aidlass, in AA.VV., Atti delle Giornate di Studio di Firenze, 27-28 aprile 1968, Milano, 1969, 11 ss.

[6] Cass. civ. 7 dicembre 2016, n. 25192, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2017, 519, con nota di Brun, Licenziamento economico (individuale) e criteri di scelta: l'impresa può licenziare il meno "produttivo"; in Foro.it, 2017, 253 s., con nota di Garofalo, Ragionando ancora di criteri di scelta nel licenziamento per g.m.o.; cfr. anche App. Firenze 20 ottobre 2016, in Arg. dir. lav., 2017, 248 ss., con nota di Ferraresi, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e criteri di scelta dei lavoratori: insoddisfacente il ricorso alle clausole generali di correttezza e buona fede.

[7] D'Antona, Commento all'art. 5, in Commentario alla l. n. 223/1991, diretto da M. Persiani, in Nuove leggi civ., 1994, 928.

[8] Cass. civ. 28 settembre 2006, n. 21035; Cass. civ. 1° ottobre 1998, n. 9768, entrambe in Foro.it.

[9] Escludono il diritto alla formazione ad es. Cass. civ. 11 marzo 2013, n. 5963; Cass. civ. 14 settembre 1995, n. 9715, in Foro.it.

[10] Cass. civ., SS.UU., 7 agosto 1998, n. 7755, in Foro.it.

[11] Cass. civ. 21 dicembre 2016, n. 262467; Cass. civ. 9 novembre 2016, n. 22798; Cass. civ. 16 maggio 2016, n. 10018, in Foro.it.

[12] Per l'irrilevanza giuridica del gruppo ai fini del repèchage, a meno che non si configuri un centro unico di imputazione dei rapporti di lavoro, cfr. Cass. civ. 31 marzo 2016, n. 6254; Cass. civ. 15 maggio 2015, n. 10038; Cass. civ. 16 maggio 2003, n. 7717, tutte in Foro.it.

[13] Cass. civ. 7 febbraio 2005, n. 2375, in Foro.it.

[14] Quali l'art. 4, comma 4, L. n. 68/1999, e l'art. 7, comma 5, D.Lgs. n. 151/2001.

[15] Del Punta, Sulla prova dell'impossibilità del ripescaggio nel licenziamento economico, in A. Perulli (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: giurisprudenza e dottrina a confronto, cit. 43 ss., 54-55.

[16] Del Punta, Sulla prova dell'impossibilità del ripescaggio nel licenziamento economico, cit., 55.