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CASS. CIV. SEZ. LAVORO ORD., 27 GENNAIO 2020, N. 1802
Martina Liaci - Abilitata all’esercizio della professione forense – Cultrice della materia in diritto privato – Università del Salento – Direttore dei servizi generali ed amministrativi

Testo della sentenza

Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 27 gennaio 2020, n. 1802

L'obbligo di repechage e demansionamento

di Martina Liaci

Abilitata all’esercizio della professione forense – Cultrice della materia in diritto privato – Università del Salento – Direttore dei servizi generali ed amministrativi

 

  1. Natura e limiti dell'obbligo di repechage

 

Natura e limiti del c.d. "obbligo di repêchage" sono stati al centro di numerosi dibattiti in dottrina e giurisprudenza, a causa dell'assenza di una previsione legale che ne disciplini il contenuto e in ragione degli innumerevoli punti di contatto che tale obbligo presenta con altri istituti. L'evoluzione legislativa di questi ultimi ha inevitabilmente comportato la necessità di ricalibrare la portata del repêchage, operazione spesso non agevole da eseguire.

Le questioni poste all'attenzione della Suprema Corte, infatti, attengono in primo luogo al raggio d'azione dell'obbligo, inteso come ambito spaziale entro cui lo stesso può essere fatto valere laddove il datore di lavoro faccia parte di un gruppo di imprese.

In secondo luogo, entrambe le pronunce si occupano, sotto diversi aspetti, del contenuto qualitativo della ricollocazione e dunque della tipologia di mansioni che ne costituiscono l'oggetto. Tale aspetto, valutato ratione temporis per ciò che attiene ai fatti oggetto del giudizio, non può tuttavia prescindere da una lettura prospettica che tenti di ridefinirne il contenuto alla luce del novellato art. 2103 c.c[1].

Infine, si ritiene opportuno rilevare come entrambe le questioni suesposte e lo stesso fondamento giuridico del repêchage vengano messi fortemente in discussione dall'evoluzione della disciplina legislativa in tema di tutele contro il licenziamento illegittimo. Ciò considerando che i licenziamenti oggetto delle due sentenze sono stati comminati in un momento antecedente sia all'introduzione del contratto a tutele crescenti, sia alla riforma Fornero. Tanto la L. n. 92/2012, quanto il D. Lgs. n. 23/2015, non intervengono a modificare il contenuto sostanziale della causale di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ma ne circoscrivono progressivamente il regime di tutela in caso di illegittimità, sino ad arrivare alla sua completa monetizzazione. Tale "approdo" non può non avere delle ricadute sulla concreta e attuale rilevanza dell'obbligo di repêchage.

Dunque, secondo un'ultima lettura, la più estensiva, anche la violazione dell'obbligo di repêchage potrebbe essere ricondotta alla «insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento», se intesa come un elemento sintomatico dell'insussistenza ab origine della ragione giustificatrice del recesso[2].

Secondo tale ragionamento, i tre requisiti dello schema di controllo sulla legittimità del licenziamento costituirebbero soltanto articolazioni di una fattispecie unitaria di cui verificare l'esistenza, ossia, sul piano concreto e con il conforto di parte della giurisprudenza[3], l'incompatibilità della professionalità del lavoratore licenziato con il nuovo assetto organizzativo dell'azienda.

E di conseguenza il "fatto", identificandosi con la nozione di giustificato motivo oggettivo di tipo economico o ricorrerebbe - in quanto connotato da tutti gli aspetti che lo caratterizzano - o non sussisterebbe affatto[4]. Quindi, in tutte le ipotesi in cui tale violazione dovesse emergere in modo evidente (manifesto), il giudice potrebbe applicare la tutela reale.

In realtà è fuor di dubbio che l'obbligo di repêchage continuerà a rappresentare, in conformità alla giurisprudenza sinora registrata, una condizione di legittimità del licenziamento, sebbene elaborata praeter legem dal diritto vivente[5].

Tuttavia, la stessa dottrina che individua nel rispetto dell'obbligo di ripescaggio un requisito di legittimità imprescindibile, riconosce che si tratta di un requisito ulteriore rispetto all'effettività delle ragioni economiche e al rispetto del nesso di causalità, e che tale requisito «non limita le scelte dell'imprenditore, ma si pone a valle di esse»[6].

Quindi la decisione del datore di lavoro si potrebbe ritenere già perfezionata una volta determinata la ragione organizzativo-produttiva nonché il nesso eziologico per la soppressione del posto di lavoro[7].

Risulterebbe quindi sufficiente rispettare questi ultimi due requisiti - e non anche l'assolvimento dell'obbligo di repêchage - per garantire la sussistenza del «fatto posto alla base del licenziamento»[8].

Pertanto, seguendo questo ragionamento, a fronte di un licenziamento illegittimo per violazione dell'obbligo di repêchage o, più in generale, del principio secondo cui il licenziamento deve essere l'extrema ratio, sarebbe applicabile la tutela indennitaria.

Argomentare in modo diverso, peraltro, renderebbe estremamente difficile individuare le «altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo», suscettibili di sanzione esclusivamente risarcitoria. Il disposto risulterebbe pressoché inapplicabile, a meno che non si ritenga che il "fatto" si identifichi totalmente con il «motivo oggettivo di licenziamento» (comprensivo, oltre che del rispetto del nesso di causalità, anche del rispetto dell'obbligo di ripescaggio) e che la funzione selettiva per l'applicazione della tutela reale sia totalmente basata sull'evidenza dell'insussistenza del motivo (manifesta insussistenza).

 

 

 

 

  1. Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 27 gennaio 2020, n. 1802

 

Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte nella sentenza in epigrafe ha ad oggetto un licenziamento irrogato dalla Banca datrice ad uno suo dipendente, direttore di filiale, per la soppressione del posto di lavoro.

La Corte d'Appello, nel confermare la declaratoria di illegittimità del licenziamento del Tribunale, rilevava che la Banca, avrebbe dovuto comparare la posizione del ricorrente con quelle degli altri dipendenti in posizione non solo equivalente, ma anche inferiore e ciò ai fini dell'assolvimento degli oneri riguardanti il c.d. repechage e alla luce dei parametri di cui all'art. 5, comma 1, L. n. 223 del 1991.

La datrice, ricorreva in Cassazione lamentando l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per essere priva di fondamento l'affermazione circa la non effettività della soppressione del posto, nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 24 e 5, L. n. 223/1991 in relazione all'art. 3, L. 604/1966 e 41 Cost.

La Corte, nel rigettare il ricorso, evidenzia che un licenziamento per giustificato motivo oggettivo non può essere suffragato dalla pura e semplice motivazione della soppressione del posto, benché effettiva e reale, ma deve essere verificata l'effettività e non pretestuosità della ragione organizzativa posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo del licenziamento.

Con riguardo a tale riscontro possono essere utilizzati i criteri di selezione indicati dall'art. 5, L. n. 223/1991, ai fini dell'osservanza dei principi di buona fede e correttezza.

Tali criteri non possono tuttavia essere richiamati in fase di adempimento dell'obbligo di repèchage, che ha una sua valenza autonoma ed attiene unicamente alla possibilità di rimpiego del lavoratore licenziato in relazione ai posti disponibili nell'organizzazione aziendale al tempo del recesso.

L'obbligo di ripescaggio costituisce uno degli "estremi" del giustificato motivo oggettivo, per cui se il datore di lavoro non dimostra in giudizio l'impossibilità di un utile ricollocamento del lavoratore all'interno dell'intera azienda, anche in mansioni inferiori, il licenziamento è ingiustificato.

 

 

    1. I limiti del testo legislativo e la supplenza giurisprudenziale

 

L'art. 3, L. n. 604/1966 definisce il giustificato motivo oggettivo (d'ora in poi, g.m.o.) di licenziamento con riferimento a "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa".

Stante l'evidente indeterminatezza ed elasticità della formula legislativa[9], sia in dottrina che in giurisprudenza, si è posto il problema di individuare quali siano concretamente le condizioni che legittimano il recesso.

Si è osservato che la norma "è così ampia e generica nel riferirsi a qualsiasi e non predeterminata 'ragione'(economica), da poter virtualmente includere qualsiasi tipo di scelta imprenditoriale, purché, appunto, di scelta imprenditoriale si tratti"[10]. Ed invero, a ben vedere, si può sostenere che - dal punto di vista letterale - la norma consente di effettuare il licenziamento in base a qualsiasi ragione economica ed organizzativa[11].

Di fronte all'incapacità del legislatore di compiere adeguate scelte di politica del diritto, ha finito per ampliarsi eccessivamente la funzione di supplenza della giurisprudenza.

Il terreno su cui la giurisprudenza ha dovuto avventurarsi è risultato però scivolosissimo soprattutto perché la fattispecie ha caratteristiche tali da non consentire di individuare, neanche sul piano teorico, il giusto punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze in campo che, anzi, appaiono sostanzialmente inconciliabili poiché entrambe meritevoli di tutela.

Da un lato, vi è l'esigenza aziendale, tutelata dall'art. 41, comma 1, Cost., di adeguare - anche - il proprio organico alle mutevoli dinamiche del mercato; dall'altro, la contrapposta esigenza del lavoratore a poter contare sulla stabilità del rapporto, che trova il suo fondamento nella tutela costituzionale del lavoro e nel principio della extrema ratio del licenziamento.

La giurisprudenza, quindi, sin dal momento di entrata in vigore della L. n. 604/1966, ha subito vistosi ondeggiamenti.

Semplificando e sintetizzando, possono individuarsi due opposti orientamenti[12].

Il primo, più restrittivo, è riconducibile alle sentenze[13] secondo cui il licenziamento individuale per g.m.o. deve essere determinato "non da un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti"[14]. In tale ottica, il licenziamento per g.m.o., configurandosi come extrema ratio, presuppone una situazione di difficoltà economica[15].

Al contrario, secondo l'orientamento più "liberista"[16], qualsiasi ragione economica ed organizzativa, purché effettivamente esistente e non pretestuosa, è tale da poter giustificare il licenziamento. Sicché il g.m.o. di licenziamento risulta essere rimesso alla valutazione del datore di lavoro, non essendo necessario che tale scelta imprenditoriale sia collegata ad una situazione di congiuntura economica negativa, ma potendo anche essere volta a un incremento dei profitti[17].

 

 

    1. I recenti sviluppi sul giustificato motivo oggettivo

 

Recentemente, l'orientamento di legittimità che ritiene compatibile il licenziamento per g.m.o. con l'incremento del profitto è parso superare quello più restrittivo. E ciò soprattutto sul rilievo che quest'ultimo, presupponendo l'andamento negativo (consistente e non contingente) dell'azienda, sottintende una concezione del licenziamento per g.m.o. quale extrema ratio, che sul piano sistematico, aveva come fondamento prossimo la tutela reale ex art. 18 Stat. lav.[18] - con il conseguente "diritto al posto", o alla stabilità del rapporto -, disposizione prima incisa dalla L. n. 92/2012, poi superata dal D.Lgs. n. 23/2015[19].

Inoltre, le modifiche legislative che hanno riformato il sistema sanzionatorio applicabile in caso di licenziamento per g.m.o. illegittimo, limitando la reintegrazione a ipotesi particolari (la "manifesta insussistenza") o eliminandola del tutto, con sostituzione di una indennità risarcitoria (contratto a tutele crescenti), sembrano aver ridotto ai minimi termini il ruolo del giudice come imprescindibile equilibrista tra le ragioni dell'impresa e i diritti del lavoratore.

La pronuncia della Cassazione civile del 7 dicembre 2016, n. 25201[20], si colloca proprio in questa prospettiva, ammettendo che un licenziamento individuale giustificato da un motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3, L. n. 604/1966, per essere legittimo, non debba essere supportato dal presupposto fattuale dell'andamento economico (negativo) dell'azienda, il quale, pertanto, non dovrà essere né provato dal datore, né tantomeno accertato dal giudice.

Tuttavia, è possibile che a fronte del nuovo solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, che prefigura la rinuncia del giudice ad esercitare un controllo sulla natura e sulla qualità delle ragioni economiche addotte dal datore di lavoro, venga data maggiore rilevanza ad altri strumenti limitativi del potere di recesso, quali possono essere i criteri di scelta e l'obbligo di repèchage. È possibile cioè, che il bilanciamento dei contrapposti interessi in campo, che prima veniva effettuato (anche) "a monte", in relazione alle "ragioni" ex art. 3, L. n. 604/1966, venga invece effettuato "a valle", con riguardo alla effettività della ragione posta a fondamento del licenziamento e alla verifica dell'adempimento dell'obbligo di repèchage[21].

In quest'ottica sembra porsi la sentenza in esame, in cui la Corte di cassazione ammette un più stringente controllo giudiziale sulla effettività e non pretestuosità della ragione posta a fondamento del licenziamento e conferma l'illegittimità del licenziamento sul presupposto del mancato adempimento dell'obbligo di repèchage.

 

 

  1.  L'obbligo di repèchage e il principio della extrema ratio

 

L'obbligo di repèchage attiene al reperimento di mansioni diverse e costituisce una creazione giurisprudenziale[22], che forma indiscutibilmente parte del diritto vivente[23].

Normalmente si parla di un obbligo di repèchage nel senso che il datore di lavoro oltre a dover dimostrare la sussistenza delle ragioni che sono alla base del licenziamento per g.m.o., deve anche dimostrare di non poter utilmente collocare il lavoratore su altra posizione di lavoro. Logicamente quindi, tale obbligo si colloca accanto, ma su posizione distinta, dal g.m.o.

Dal punto di vista processuale il repèchage si configura più come un onere, che come obbligo, attratto nell'orbita dell'art. 5, L. n. 604/1966. Ma gli effetti sul piano processuale sono il riflesso, a loro volta, di un diverso fenomeno attrattivo: quello cioè dell'arruolamento del repèchage tra gli elementi costitutivi della nozione di g.m.o.[24].

La giurisprudenza è infatti, concorde nel ritenere che la prova dell'impossibilità di ripescaggio faccia parte a pieno titolo della fattispecie del giustificato motivo oggettivo, sì che la mancanza di tale prova dà luogo alla ingiustificatezza del licenziamento alla stregua dell'accertamento dell'insussistenza della ragione posta a base dello stesso.

Ed invero, secondo l'orientamento ormai consolidato della Corte, gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del g.m.o. includono anche l'impossibilità del c.d. repèchage. L'allegazione e la prova dell'impossibilità di repèchage del lavoratore licenziato spetta al datore di lavoro, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento[25].

L'obbligo di repèchageè perlopiù basato sulla concezione del licenziamento per g.m.o. come extrema ratio, cioè quale "rimedio ultimo e necessitato per soddisfare esigenze di impresa di carattere organizzativo e produttivo non altrimenti risolvibili"[26].

Per cui il licenziamento è giustificato solo in presenza di serie ragioni ex art. 3, L. n. 604/1966 e quando risulti come inevitabile, o perché non è possibile altra utilizzazione nell'azienda o perché questa non sarebbe possibile previa riqualificazione professionale.

La messa in discussione del principio della extrema ratio del licenziamento, a seguito delle riforme legislative del 2012 e del 2015 e della sentenza della Corte di cassazione sopra citata, con riguardo alla natura e alla qualità delle ragioni che giustificano il licenziamento, non pare aver "intaccato" il medesimo principio con riguardo all'adempimento dell'obbligo di repèchage[27].

Si noti che anche le sentenze che escludono l'invocabilità dell'extrema ratio per la causale ex art. 3, L. n. 604/1966[28] - escludendo di fatto che le ragioni del licenziamento per g.m.o. presuppongono un andamento economico negativo dell'azienda - la richiamano poi per il ripescaggio[29].

Il richiamo del principio della extrema ratio per il ripescaggio realizza di fatto un'applicazione concreta dell'istanza di bilanciamento tra i contrapposti interessi in campo, "anche se avviene più a valle della catena causale"[30].

Quello che conta ai fini del bilanciamento è, infatti, quanto si riesce a proteggere, in un modo o nell'altro, l'interesse del lavoratore alla conservazione al posto, e non già quanto si riesce a contrastare alla radice il potere datoriale di recesso per motivi economici[31].

 

 

 


[1] Carinci, Dall'impresa a rete alle reti d'impresa (scelte organizzative e diritto del lavoro), Milano, 2018, 85 ss.

[2] Cass., 23 giugno 2005, n. 13468, in Orient. Giur. Lav., 2005, 647; Id., 17 luglio 2002, n. 10356, ivi, 2002, 935.

[3] Cass., 22 ottobre 2009, n. 22417, in Giur. It., 2010, 357 e segg., con nota di Napolitano; Id., 14 maggio 2012, n. 7474, cit.; Id., 26 settembre 2011, n. 19616, in Mass. Foro It., 2011, 762; Id., 1 luglio 2011, n. 14517, in Not. Giur. Lav., 2011, 638.

[4] Carinci, Clausole generali, certificazione e limiti al sindacato del giudice, in Mazzotta, Il diritto del lavoro dopo il "collegato", Temi, IusMaster, 2010, 19 e segg.

[5]  Torrice, Manifestamente infelice la formulazione di alcune norme della nuova disciplina dei licenziamenti, Relazione Seminario Agi, Roma, 17 luglio 2012, in www.legge-e-giustizia.it

[6] Carabelli, I licenziamenti per riduzione di personale in Italia, in AA.VV., I licenziamenti per riduzione di personale in Europa, Bari, 2018, 215.

[7] Un caso particolare si registra qualora l'eccedenza di una o più posizioni lavorative investa il personale aziendale in modo assolutamente generico e fungibile, in quanto in queste ipotesi, come osservato, i requisiti di legittimità del recesso consistono esclusivamente nell'effettività e nella veridicità della scelta organizzativa-produttiva ex art. 3 legge n. 604/1966, nonché nel rispetto dei canoni di buona fede e correttezza per l'individuazione del/i lavoratore/i da licenziare (desumibile in via analogica dal rispetto dei criteri di anzianità e carichi di famiglia ex art. 5 legge n. 223/1991). Ai fini dell'applicazione (facoltativa) della reintegrazione, quindi, il «fatto posto alla base del licenziamento» per g.m.o. si potrebbe identificare solo con la suddetta veridicità della causale addotta a fondamento della decisione di sopprimere il posto o i posti di lavoro, ma per l'appunto non con il nesso di causalità né con il rispetto dell'obbligo di repêchage, che per l'appunto non possono costituire presupposti di legittimità del licenziamento, neppure ai fini dell'applicazione della tutela indennitaria. Allo stesso modo non pare riconducibile entro la nozione di "fatto" il rispetto dei criteri posti dall'art. 5 legge n. 223/1991 per la scelta dei lavoratori, e la violazione di tali criteri dovrebbe, a rigore, condurre sempre all'applicazione della tutela indennitaria tra 12 e 24 mensilità della retribuzione globale di fatto. Eppure lo stesso art. 5 dispone che «In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo articolo 18», sancendo quindi l'applicazione della reintegrazione con risarcimento delimitato nel massimo a dodici mensilità: tale sanzione, giova sottolineare, non si applica a discrezione del giudice, bensì in via esclusiva, all'accertamento della violazione. Di conseguenza, nel caso in cui siano violati i criteri di scelta sussidiari legali, che sono previsti (inalterati) dall'art. 5 della legge n. 223/1991, un'interpretazione letterale del quadro normativo determinerebbe sempre l'applicazione della tutela reale in presenza di licenziamenti collettivi e determinerebbe sempre l'applicazione della tutela indennitaria in caso di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo. Il differente regime sanzionatorio risulterebbe irragionevole negli effetti, tenuto conto che quegli stessi criteri di legittimità sono stati desunti in via analogica dalla disciplina dei licenziamenti collettivi e che la stessa disciplina sanzionatoria dei licenziamenti collettivi illegittimi (art. 5 della legge n. 223/1991, come novellato ex art. 1 comma 46) oggi rinvia ai commi 4 e 5 del nuovo art. 18 stat. lav.

[8] Tatarelli, Articolo 18, al giudice la decisione sul reintegro nei casi di manifesta insussistenza del motivo oggettivo, articolo del 18 aprile 2012 in www.diritto24.ilsole24ore.com.

[9] Calcaterra, La giustificazione causale del licenziamento per motivi oggettivi nella giurisprudenza di legittimità, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2005, 3, 622 ss.; Ferraresi, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Dalla legge 604 del 1966 al contratto a tutele crescenti, Torino, 2016, 66 ss.

[10] Del Punta, Disciplina del licenziamento e modelli organizzativi delle imprese, in DLRI, 1998, 704; Id., Sulla prova della impossibilità del ripescaggio nel licenziamento economico, 2.

[11] De Luca Tamajo, Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo, in A. Perulli (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: giurisprudenza e dottrina a confronto, Torino, 2017, 29 ss.

[12] Ponterio, La valutazione del giudice e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Questione Giustiziahttp://www.questionegiustizia.it, 2016,2 ss.; Id., Il nuovo orientamento della Cassazione sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Questione giustiziahtpp://www.questionegiustizia.it, 2017, 2; Varva, Il licenziamento economico. Pretese del legislatore e tecnica di giudizio, Milano, 2015, 29 ss., in particolare 47 ss.; Ferraresi, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Dalla legge 604 del 1966 al contratto a tutele crescenti, Torino, 2016, 66 ss.

[13] Cass. civ. 15 giugno 2017, n. 14871; Cass. civ. 3 maggio 2017, n. 10699; Cass. civ. 16 marzo 2015, n. 5173; Cass. civ. 23 ottobre 2013, n. 24037; Cass. civ. 9 luglio 2013, n. 16987; Cass. civ. 21 febbraio 2013, n. 4299; Cass. civ. 8 ottobre 2012, n. 17087; Cass. civ. 12 settembre 2012, n. 15258; Cass. civ. 9 settembre 2012, n. 15258; Cass. civ. 17 novembre 2010, n. 23222; Cass. civ. 25 giugno 2009, n. 14953; Cass. civ. 2 ottobre 2006 n. 21282, in Mass. Giust. civ., 2006, 10 e Cass. civ. 7 luglio 2004, n. 12514, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, con nota di P. Ichino.

[14] Cass. civ. 16 marzo 2015, n. 5173, in Foro.it.

[15] Mancini, Commento all'art. 18, in Ghezzi - Mancini - Montuschi - Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1972, 83. Liso, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, cit., 80-83; Napoli, La stabilità reale del posto di lavoro, cit., 333. Contra la verifica dell'extrema ratio del provvedimento di licenziamento poiché praeterlegem De Angelis, Il giustificato motivo di licenziamento e la tutela reale del posto di lavoro tra rigidità e rigore: aspetti problematici e una proposta, in Riv. it. dir. lav., 2001, I, 123.

[16] Perulli, Giustificato motivo oggettivo, soppressione del posto e "paradigma" del diritto del lavoro, in A. Perulli (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: giurisprudenza e dottrina a confronto, Torino, 2017, 11.

[17] Cass. civ. 11 maggio 2018, n. 11413; Cass. civ. 2 maggio 2018, n. 10435; Cass. civ. 12 aprile 2018, n. 9127; Cass. civ. 3 maggio 2017, n. 10699, in questa Rivista, 2017, 10, 931; Cass. civ. 15 febbraio 2017, n. 4015, in questa Rivista, 2017, 6, 602; Cass. civ. 20 settembre 2016, n. 18409, in Riv. giur. lav., 2017, II, 57, con nota di Caponetti, Licenziamento per g.m.o. della lavoratrice part time; Cass. civ. 7 dicembre 2016, n. 25201, in Foro it., 2017, 2, I, 590; Cass. civ. 1° luglio 2016, n. 13516; Cass. civ. 14 novembre 2013, n. 25615; Cass. civ. 21 novembre 2011, n. 24502; Cass. civ. 3 agosto 2011, n. 16987; Cass. civ. 13 luglio 2009, n. 16323; Cass. civ. 13 ottobre 2008, n. 25043; Cass. civ. 4 dicembre 2007, n. 25270; Cass. civ. 22 agosto 2007, n. 17887; Cass. civ. 10 maggio 2007, n. 10672; Cass. civ. 15 dicembre 2006, n. 26894; Cass. civ. 1° giugno 2005, n. 11678; Cass. civ. 11 aprile 2003, n. 5777; Cass. civ. 9 luglio 2001, n. 9310. In Foro.it.

[18] Ballestrero, I licenziamenti, Milano, 1975, 386.

[19] Ferraresi, Recenti sviluppi del dibattito sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Dall'apparato sanzionatorio alla fattispecie, in WP Adapt, 2017, 43.

[20] La sentenza ha decisamente virato nel senso della piena neutralizzazione dei motivi di licenziamento (sia di crisi di mercato esterno, sia di riorganizzazione interna) con riguardo alla ricostruzione della fattispecie, con conseguente rivalutazione dell'art. 41, comma 1, Cost.: "Dal punto di vista dell'esegesi testuale della disposizione è sufficiente che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, tra le quali non possono essere aprioristicamente o pregiudizialmente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività dell'impresa. Non è quindi necessitato che si debba fronteggiare un andamento economico negativo o spese straordinarie e non appare pertanto immeritevole di considerazione l'obiettivo aziendale di salvaguardare la competitività nel settore nel quale si svolge l'attività dell'impresa, attraverso le modalità, e quindi la combinazione dei fattori della produzione, ritenute più opportune dal soggetto che ne assume la responsabilità anche in termini di rischio e di conseguenze patrimoniali pregiudizievoli".

[21] Caruso, La fattispecie "giustificato motivo oggettivo" di licenziamento tra storia e attualità, in A. Perulli (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: giurisprudenza e dottrina a confronto, cit., 9 ss. 

[22] Ferraresi, L'obbligo di repêchage tra riforme della disciplina dei licenziamenti e recenti pronunce di legittimità, in Var. temi dir. lav., 2016, 833 ss.; Romei, Natura e struttura dell'obbligo di repêchage, in A. Perulli (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: giurisprudenza e dottrina a confronto, cit., 114 ss.

[23] Carinci, Licenziamento e tutele differenziate, in O. Mazzotta (a cura di), Lavoro ed esigenze dell'impresa fra diritto sostanziale e processo dopo il Jobs Act, Torino, 2016, 134.

[24] Romei, Natura e struttura dell'obbligo di repèchage, cit., 115-116.

[25] Cass. civ. 22 marzo 2016, n. 5592, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2016, 842, con nota di M. Ferraresi.

[26] Mancini, Art. 18, in G. Ghezzi - G.F. Mancini - F. Montuschi - U. Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, in Foro it., 1972, 257.

[27] Nel senso che l'abbandono della tesi del licenziamento come extrema ratio debba contribuire "almeno ad un uso più consapevole dell'obbligo/onere di repèchage e ad una sua più corretta collocazione nella struttura del processo di controllo sul licenziamento", Romei, Natura e struttura dell'obbligo di repèchage, cit., 123.

[28] Cass. civ. 7 dicembre 2016, n. 25201: "la diversa interpretazione, infatti, non trova riscontro in dati interni al dettato normativo bensì viene patrocinata sulla base di elementi extra-testuali e di contesto e trae origine nella tesi dottrinale della extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l'uso del licenziamento dovrebbe essere 'socialmente opportuna'".

[29] Cass. civ. 5 gennaio 2017, n. 160, in Riv. it. dir. lav., 2017, II, 12 ss., con nota di Colella, Ripartizione degli oneri deduttivi e assertivi in tema di repêchage: punto fermo o punto interrogativo?; in Riv. giur. lav., 2017, II, 245, con nota di Calvellini, Obbligo di repêchage: vecchi e nuovi problemi all'esame della Cassazione; Cass. 11 ottobre 2016, n. 20436. Rileva la contraddizione Persiani, Giustificato motivo oggettivo di licenziamento e autorità dal punto di vista giuridico, in Arg. dir. lav., 2017, 138.

[30] Del Punta, Sulla prova dell'impossibilità del ripescaggio nel licenziamento economico, in A. Perulli (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: giurisprudenza e dottrina a confronto, cit., 43 ss., 47.

[31] Ibidem.