Giu Leasing traslativo.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III - 3 - ORDINANZA 14 ottobre 2021 N. 28022
Massima
Nel contratto di leasing traslativo è valida ed efficace la clausola la quale stabilisca che, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, spettino al concedente i canoni già scaduti e i canoni ancora non maturati, scontati al momento della risoluzione del contratto, previa detrazione del valore di mercato del bene oggetto del contratto al momento della risoluzione; è valido ed efficace il patto contenuto in un contratto di leasing traslativo il quale attribuisca al concedente, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, la facoltà di determinare unilateralmente il valore del bene oggetto del contratto, e sottrarlo dal credito residuo vantato nei confronti dell'utilizzatore. Tuttavia tale patto ha per corollario l'obbligo del concedente di stimare il bene secondo correttezza e buona fede; in caso di contestazione della stima da parte dell'utilizzatore, è onere del concedente palesare il criterio adottato, e del concederne dimostrarne l'erroneità.

Casus Decisus
FATTI DI CAUSA 1. Nel 2003 la società Italease s.p.a. (che in seguito muterà ragione sociale in Banco BPM s.p.a., e come tale sarà d'ora innanzi comunque indicata) stipulò un contratto di sale and lease back con la società Progetto Bari s.r.l., avente ad oggetto un immobile sito a (OMISSIS). 2. La Progetto Bari s.r.l. in seguito muterà ragione sociale in Arke' s.r.l.; quindi si scinderà nelle due società Arke' s.r.l. ed Arke' Hotel Business Center s.r.l. (d'ora innanzi, per brevità, "la AHBC"). Infine, la Arke' s.r.l. muterà nuovamente ragione sociale in H Consulting s.r.l. 3. I debiti della AHBC verso la società concedente Banco BPM vennero garantiti con fideiussione, per quanto ancora rileva, dalla Nicofin s.p.a. (in seguito, Nicofin s.r.l.). Il contratto venne novato nel 2009. 4. Tra la fine del 2012 e l'inizio del 2013 il Banco BPM, allegando l'inadempimento della ABHC alle proprie obbligazioni, adottò due iniziative giudiziarie: -) chiese ed ottenne dal Tribunale di Milano un decreto ingiuntivo avente ad oggetto i canoni di leasing rimasti insoluti, per l'importo di circa 3.000.000 di Euro; -) convenne dinanzi al Tribunale di Milano la ABHC chiedendone la condanna - previo accertamento della risoluzione del contratto - al rilascio dell'immobile e al risarcimento del danno da inadempimento. 5. La ABHC, la Arke' e la Nicofin proposero opposizione al decreto ingiuntivo. Chiesero in via riconvenzionale accertarsi la nullità del contratto di sale and lease back, in quanto dissimulante un patto commissorio; domandarono in subordine la riduzione delle penali contrattualmente previste, eccepirono la nullità del saggio degli interessi moratori previsti nel contratto. 6. Il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo e quello di risoluzione vennero riuniti. Con sentenza 16 marzo 2016 n. 3562 il Tribunale di Milano dichiarò risolto per inadempimento dell'utilizzatrice il contratto di sale and lease back; condannò la ABHC al rilascio dell'immobile; rigettò l'opposizione a decreto ingiuntivo. La sentenza venne appellata dalle parti soccombenti. 7. Con sentenza 28 luglio 2018 n. 3656 la Corte d'appello di Milano rigettò il gravame. La Corte d'appello ritenne che: -) non sussisteva alcun indice sintomatico dal quale desumere che il contratto stipulato fra le parti dissimulasse un patto commissorio; -) il saggio degli interessi corrispettivi e quello degli interessi moratori previsti dal contratto non erano usurari; in ogni caso la relativa doglianza era inammissibile per difetto di specificità e comunque non provata; -) la risoluzione del contratto non obbligava la banca alla restituzione dei canoni riscossi, ai sensi dell'art. 1526 c.c., comma 2, in virtù del patto in tal senso espressamente convenuto; né in ogni caso l'utilizzatrice poteva pretendere la restituzione dei canoni pagati durante il tempo in cui aveva occupato l'immobile. 8. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione con ricorso unitario fondato su quattro motivi dalla ABHC, dalla H Consulting e dalla Nicofin. Ha resistito con controricorso il Banco BPM. Tutte le parti hanno depositato memoria.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III - 3 - ORDINANZA 14 ottobre 2021 N. 28022

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo i ricorrenti prospettano due censure.

Con una prima censura sostengono che erroneamente la Corte d'appello ha escluso la nullità del patto con cui le parti avevano concordato la misura degli interessi mora.

Deducono che le parti avevano stabilito che in caso di mora fossero dovuti dall'utilizzatrice sia gli interessi corrispettivi, sia quelli moratori, e che il cumulo del saggio contrattualmente previsto per gli uni e per gli altri eccedeva il tasso soglia stabilito dai decreti attuativi della legge antiusura.

Con una seconda e subordinata censura deducono che, anche a volere ritenere che il contratto non prevedesse il cumulo degli interessi corrispettivi e di quelli moratori, questi ultimi erano comunque usurari.

Infatti, poiché il saggio degli interessi moratori contrattualmente previsto era, al momento della pattuizione, inferiore di circa un punto percentuale soltanto al tasso soglia, si dovrebbe "agevolmente inferire" che calcolando "le ulteriori spese e commissioni per assicurazione, incastrata, istruttorie, gestione, estinzione anticipata", il tasso soglia verrebbe superato.

1.1. Il motivo è inammissibile per estraneità alla ratio decidendi.

La Corte d'appello infatti ha reputato "inammissibile per genericità" il motivo di gravame con cui era stata riproposta in grado di appello la questione della usurarietà del saggio degli interessi moratori, e tale statuizione non è stata validamente impugnata.

1.2. In ogni caso, anche a volere ritenere un mero obiter dictum il passaggio in cui la Corte d'appello afferma che "il motivo di impugnazione in questione difetta del requisito di specificità" (così la sentenza d'appello, p. 17, terzo capoverso), il primo motivo di ricorso sarebbe comunque inammissibile anche per altre ragioni.

In primo luogo è inammissibile perché la Corte d'appello, con ulteriore ed autonoma ratio decidendi, ha ritenuto "non dimostrata" l'eccedenza del saggio applicato dalla Banca rispetto al tasso soglia; ed anche tale statuizione non viene impugnata.

1.3. In secondo luogo il motivo è inammissibile perché censura nella sostanza l'interpretazione del contratto, senza prospettare la violazione di alcuno dei canoni ermeneutiche di cui agli artt. 1362 c.c. e ss..

La Corte d'appello, infatti, ha interpretato il contratto nel senso che esso non prevedesse affatto, per l'ipotesi di mora, il cumulo degli interessi corrispettivi di quelli moratori. Ha ritenuto che il contratto stabilisse una cosa ben diversa, e cioè determinasse il saggio degli interessi di mora per relationem, e cioè prevedendo che, nel caso di mora, il saggio degli interessi fosse pari ad un multiplo del saggio degli interessi corrispettivi.

Le ricorrenti sostengono che tale interpretazione non sarebbe corretta, ma non prospettano la violazione di alcuno dei criteri legali di interpretazione dei contratti.

Una censura, dunque, inammissibile alla luce del consolidato orientamento di questa corte, secondo cui l'interpretazione del contratto adottata dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità quando siano state violate le regole legali di ermeneutica di cui agli artt. 1362 c.c. e ss..

Tale violazione, tuttavia, non può dirsi sussistente sol perché il testo contrattuale consentiva in teoria altre e diverse interpretazioni, rispetto a quella fatta propria dalla sentenza impugnata (ex multis, in tal senso, Sez. 3 -, Sentenza n. 28319 del 28/11/2017, Rv. 646649 - 01; Sez. 1 -, Ordinanza n. 27136 del 15/11/2017; Sez. 1, Sentenza n. 6125 del 17/03/2014; Sez. 3, Sentenza n. 16254 del 25/09/2012; Sez. 3, Sentenza n. 24539 del 20/11/2009, Rv. 610944 - 01; Sez. 1, Sentenza n. 10131 del 02/05/2006, Rv. 589465 - 01).

2. Il secondo motivo di ricorso contiene - al di là della sua intitolazione - due distinte censure.

Con una prima censura le ricorrenti sostengono che erroneamente la Corte d'appello ha negato il loro diritto alla restituzione dei canoni già pagati.

Sostengono che questa statuizione sarebbe erronea perché:

-) la clausola contrattuale che prevedeva il diritto della concedente, in caso di risoluzione del contratto, di trattenere i canoni già pagati era nulla "per contrarietà all'ordine pubblico economico", perché consentiva alla concedente sia di trattenere i canoni già incassati, sia di pretendere il pagamento dei canoni ancora da scadere (previa attualizzazione), sia di pretendere la restituzione del bene, col solo obbligo di defalcare dal proprio credito quanto ricavato dal reimpiego del bene;

-) in caso di risoluzione del contratto di leasing, a titolo di risarcimento del danno il concedente può pretendere solo la remunerazione per il godimento del bene, ma non il danno da mancato guadagno.

Invece la Corte d'appello, consentendo alla società concedente di trattenere sia i canoni già incassati, sia di pretendere i canoni ancora dovuti, avrebbe violato il suddetto principio.

2.1. Con una seconda censura le ricorrenti lamentano la violazione dell'art. 1384 c.c..

Sostengono che il contratto prevedeva una clausola penale in virtù della quale, in caso di risoluzione, la società concedente avrebbe avuto diritto di trattenere i canoni incassati, pretendere quelli futuri (previa attualizzazione), pretendere la restituzione del bene, salvo imputare a diffalco del proprio credito l'eventuale valore di realizzo.

La Corte d'appello, proseguono le ricorrenti, ha ritenuto che tale penale non dovesse essere ridotta, perché non eccessiva, sul presupposto che nel caso di specie "non sussiste prova di una ingiustificata locupletazione da parte della banca".

Nel caso di specie, tuttavia, la società utilizzatrice aveva perduto i canoni già pagati, era stata condannata a pagare i canoni ancora dovuti, ed aveva restituito l'immobile: in questo modo la società concedente aveva realizzato un "ingiustificato arricchimento", conservando la proprietà del bene ed incassando nello stesso tempo il credito per canoni scaduti e per quelli da scadere.

2.2. La complessa censura sopra riassunta cumula tre distinte questioni:

a) se nel caso di specie sussista una nullità dei patti contrattuali, attributivi al concedente il diritto di pretendere in caso di inadempimento dell'utilizzatore, sia la restituzione del bene, sia i canoni scaduti, sia i canoni non ancora scaduti, previo diffalco di quanto ricavato dalla vendita o dal reimpiego fruttuoso del bene (c.d. "patto di deduzione");

b) se in caso di risoluzione per inadempimento il contraente fedele e danneggiato possa pretendere il risarcimento dell'interesse positivo;

c) se correttamente il giudice di merito abbia escluso l'eccessività della penale.

Tali questioni debbono essere esaminate separatamente.

3. (A) Prima questione: sulla nullità dei patti contrattuali.

La censura con cui si denuncia l'erroneità della sentenza d'appello, per avere escluso la nullità dei patti contrattuali che disciplinavano gli effetti della risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, è infondata per più ragioni.

3.1 La prima ragione è che la validità del patto con cui si attribuisce al concedente, in caso di inadempimento dell'utilizzatore, di pretendere i canoni scaduti e quelli non ancora scaduti, previa detrazione del valore ricavato dalla vendita del bene oggetto del leasing, è stata ammessa dalle Sezioni Unite di questa Corte, nella decisione con cui è stato composto il contrasto circa gli effetti che la riforma della L.Fall., (L.Fall., art. 72 quater) ha avuto sulla disciplina degli effetti della risoluzione per inadempimento del contratto di leasing (Sez. U -, Sentenza n. 2061 del 28/01/2021).

Nell'ampia motivazione di quella sentenza si afferma tra l'altro che:

-) non è inibito alle parti del contratto di leasing prevedere che i canoni scaduti restino acquisiti al concedente, ai sensi dell'art. 1526 c.c., comma 2;

-) non è inibito alle parti del contratto di leasing prevedere che i canoni ancora da scadere siano dovuti al concedente a titolo di penale, ex art. 1382 c.c.; -) unica cautela necessaria è che, in questi casi, è onere del concedente, nell'esigere il proprio credito verso l'utilizzatore, "indicare la somma ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto del contratto ovvero, in mancanza, allegare una stima attendibile del relativo valore di mercato all'attualità, onde consentire al giudice di apprezzare l'eventuale manifesta eccessività della penale, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1526 c.c., comma 2";

-) simili patti costituiscono "espressione di una razionalità propria della realtà socio-economica"; sono sorti nella pratica commerciale, e il legislatore li ha anche recepiti nella L. n. 124 del 2017.

Tale decisione esclude dunque che i patti suddetti possano di per sé essere considerati nulli.

3.2. La seconda ragione è che i patti suddetti non solo non violano - al contrario di quanto sostenuto dalle ricorrenti - ma anzi ripristinano il c.d. "ordine pubblico economico", infranto dall'inadempimento dell'utilizzatore. L'espressione "ordine pubblico economico" (sconosciuta all'ordinamento positivo ma spesso utilizzata da questa Corte) è convenzionalmente impiegata per designare il complesso delle norme, dei principi e degli istituti intesi a garantire il corretto svolgimento dei rapporti tra privati in materia economica (Sez. 1, Sentenza n. 1184 del 21.1.2020, p. 3.3 dei "Motivi della decisione").

Sono stati ritenuti da questa Corte contrari "all'ordine pubblico economico", ad esempio, patti stipulati al fine di aggirare la normativa antimafia o la libera concorrenza (Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 6068 del 4.3.2021); contratti stipulati (con lo Stato) concepiti per recar danno all'erario (Sez. U, Sentenza n. 2157 del 1.2.2021); contratti stipulati simulatamente, al fine di dissimulare lo stato di decozione d'una impresa commerciale (Sez. 1, Ordinanza n. 16706 del 5.8.2020); od ancora accordi e condotte violative delle norme che prescrivono l'indipendenza dell'attestatore di un concordato preventivo, L.Fall., ex art. 161, comma 30 (Sez. 1, Ordinanza n. 12171 del 22.6.2020).

Già questi esempi basterebbero a dimostrare che il concetto di "ordine pubblico economico" finisce spesso per essere, in concreto, una quinta ruota del carro, giacché per pervenire al risultato della nullità del contratto sarebbero bastate nei casi suddetti le norme sulla simulazione, sulla nullità per illiceità della causa o dell'oggetto, o quelle sulla nullità del contrato per contrarietà a norme imperative.

Ma anche a volere ritenere che la nullità del contratto per "contrarietà all'ordine pubblico economico" costituisca un vizio concettualmente autonomo e diverso dalle ipotesi di nullità espressamente previste dalla legge, resterebbe il fatto che una clausola contrattuale non può dirsi nulla sol perché svantaggiosa per una delle parti.

L'ordinamento commerciale non è un egualitario letto di Procuste che imponga l'assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali.

L'ordinamento, al contrario, garantisce in egual misura tanto la protezione contro gli abusi di posizioni dominanti, quanto il diritto di iniziativa economica. Se l'imprenditore ha il dovere di rispettare le regole del gioco, nondimeno ha anche il diritto di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e commerciali, come già ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo, con ampiezza di motivazioni, Sez. 1, Sentenza n. 1184 del 21.1.2020).

La denuncia di nullità d'una clausola contrattuale, motivata con la contrarietà di essa all'"ordine pubblico economico", pertanto, non può restare a livello di mera declamazione, ma dovrebbe ed essere spiegata individuando le concrete condotte od i concreti effetti che travalicano il legittimo esercizio dell'impresa commerciale.

Condotte ed effetti che nel caso di specie, come si dirà meglio tra breve, non si ravvisano.

3.3. La terza ragione è che la clausola oggetto del contendere costituisce trascrizione quasi fedele dell'art. 13, commi 2, 3 e 4, della convenzione di Ottawa sul leasing internazionale (ratificata con L. 14 luglio 1993, n. 259): ed è singolare che una clausola possa dirsi contraria all'ordine pubblico economico nazionale, ma coerente con l'ordine pubblico economico internazionale.

3.4. La quarta ragione è che la clausola suddetta:

-) consente al concedente di trattenere i canoni incassati: e questa è una previsione conforme all'art. 1526 c.c., comma 2;

-) consente al concedente di pretendere, a titolo di risarcimento, i canoni ancora dovuti: e questa è una previsione conforme all'art. 1382 c.c., salva ovviamente la possibilità di riduzione in sede giudiziale;

-) vieta al concedente di acquisire, oltre l'intero importo del finanziamento, anche il valore del bene oggetto del contratto: e questa previsione impedisce che il concedente possa ricavare dall'inadempimento del contratto un vantaggio addirittura maggiore rispetto a quello scaturente dalla regolare esecuzione di esso.

La clausola dunque, lungi dall'attribuire profitti ingiusti, non fa altro che "duplicare" precetti già desumibili dall'ordinamento.

3.5. Un cenno a parte merita la deduzione con cui le ricorrenti - richiamando due precedenti di questa Corte, dei quali si dirà meglio più oltre - sostiene la nullità del c.d. "patto di deduzione", cioè della clausola con cui le parti convennero che, nel caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell'utilizzatore, dal credito del concedente si sarebbe detratto il valore del bene.

Anche tale patto sarebbe secondo le ricorrenti contrario "all'ordine pubblico economico", perché lascerebbe il concedente "del tutto libero di procedere o meno all'operazione di riallocazione secondo le proprie insindacabili determinazioni".

E' una tesi che non merita di essere condivisa.

Il punto di diritto, infatti, non è se il concedente, rientrando in possesso del bene, possa o non possa venderlo, riutilizzarlo o goderne direttamente "secondo le sue insindacabili determinazioni". La società concedente resta infatti proprietaria di quel bene, e ci mancherebbe che al proprietario non fosse consentito fare dei propri beni quel che vuole, giustappunto secondo le sue insindacabili determinazioni.

Il punto di diritto che viene in rilievo nel presente giudizio è ben diverso: e cioè come debba essere quantificato il "sottraendo" nel calcolo del credito residuo del concedente.

Ma la mancanza di indicazioni in tal senso nel contratto non è affatto causa di nullità della clausola in esame.

I contratti infatti si interpretano in buona fede (art. 1366 c.c.), e in buona fede si eseguono (art. 1375 c.c.). Ed alla luce del criterio di buona fede il valore del bene da portare in detrazione dal credito del concedente non potrà che essere il valore equo di mercato (c.d. fair value), nel luogo e al tempo della risoluzione.

Se il concedente riuscirà a reimpiegare quel bene ad un valore maggiore, ovviamente l'intero ricavato andrà portato in detrazione, in virtù del principio della compensatio lucri cum damno; se il concedente non dovesse riuscire a realizzare il valore di mercato per propria trascuranza o maltalento, dovrà comunque detrarre dal proprio credito il valore di mercato, e non la minor somma ricavata, in virtù del principio di cui all'art. 1227 c.c., comma 2, (sempre che la relativa eccezione sia stata tempestivamente sollevata); se, infine, il concedente non dovesse riuscire a realizzare il valore di mercato non per propria negligenza, ma a causa delle oggettive condizioni di mercato, avrà diritto di detrarre dal proprio credito il valore effettivo di realizzo.

3.6. In conclusione, la prima censura del secondo motivo di ricorso è dunque infondata perché la clausola di cui si invoca la nullità non è nulla, e non lo è in quanto il quadro normativo applicabile al caso di specie va ricostruito come segue.

La risoluzione del contratto ha fatto venir meno le obbligazioni scaturenti da esso, le quali sono state rimpiazzate da obblighi restitutori e risarcitori.

La legge consente alle parti disciplinare ex ante, con apposito atto, sia gli uni che gli altri.

In particolare, sul piano restitutorio, l'art. 1526 c.c., comma 2, (non è in discussione che il contratto oggetto del contendere costituisse un leasing traslativo) consente alle parti di prevedere che i canoni già pagati dall'utilizzatore restino acquisiti al concedente, a titolo di equo indennizzo per il godimento della cosa. Dunque la clausola in esame, nella parte in cui attribuisce tale diritto al concedente, lungi dall'essere contraria a qualsivoglia "ordine pubblico", costituisce applicazione di un criterio legale.

Sul piano risarcitorio, l'art. 1382 c.c. consente alle parti di predeterminare la quantificazione del danno: e in astratto nulla vieta che il danno sia quantificato in misura pari ai canoni ancora dovuti al momento della risoluzione.

Sul piano più strettamente economico, poi, una simile pattuizione è perfettamente coerente con la natura del contratto di leasing.

Infatti, in caso di puntuale adempimento da parte dell'utilizzatore, il concedente avrebbe realizzato un lucro pari al coacervo dei canoni concordati. Poiché in caso di risoluzione del contratto una delle poste del risarcimento dovuto al contraente fedele è il quantum lucrari potui, è coerente con tale principio che la penale sia parametrata al lucro che il concedente avrebbe realizzato, se il contratto avesse avuto puntuale esecuzione.

Infine, la previsione secondo cui il concedente, tornato in possesso del bene oggetto del contratto, aveva facoltà di venderlo o reimpiegarlo, defalcando dal proprio credito il ricavato della vendita del reimpiego, lungi dal costituire una pattuizione nulla, è anzi puntualmente conforme a principi già da tempo affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui legittimamente la clausola penale attribuisce al concedente, nel caso di inadempimento dell'utilizzatore, l'intero importo del finanziamento (Sez. 3 -, Ordinanza n. 15202 del 12/06/2018, Rv. 649319 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 888 del 17/01/2014, Rv. 629425 - 01).

3.7. Resta da aggiungere, per completezza, che le ricorrenti sono nel vero quando allegano che in due decisioni di questa Corte, pronunciate in fattispecie quasi del tutto analoghe (l'unica differenza è che esse avevano ad oggetto non una opposizione a decreto ingiuntivo, ma due opposizioni al rigetto di ammissione allo stato passivo), è stata dichiarata la nullità "per contrarietà all'ordine pubblico economico" di clausole molto simili a quella oggi in esame (Sez. 1, Ordinanza n. 27935 del 31.10.2018 e Sez. 1, Ordinanza n. 21476 del 15.9.2017).

Alle decisioni invocate dalle ricorrenti, per amor di verità, deve aggiungersene una terza, pur essa conforme (Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 3200 del 4.2.2019). Alle suddette decisioni, tuttavia, ritiene il collegio non possa darsi più continuità, per due ragioni.

In primo luogo, perché esse sono state superate dal successivo intervento delle Sezioni Unite in tema di leasing sopra ricordato, e cioè Sez. U -, Sentenza n. 2061 del 28/01/2021.

Ivi si è affermato, come già detto, che il patto di cui le ricorrenti invocano la nullità costituisce "espressione di una razionalità propria della realtà socioeconomica", e esso comporta per il concedente la sola cautela di determinare il proprio credito allegando una "stima attendibile del valore di mercato all'attualità" del bene restituito.

In secondo luogo, le decisioni di questa Corte invocate dalle ricorrenti non appaiono coerenti coi principi sopra elencati in tema di "ordine pubblico economico", e non sono sorrette da motivazioni esaustive.

La nullità del patto di deduzione fu infatti affermata la prima volta dalla sentenza del 2017, che la motivò solo ed unicamente nei seguenti termini: "il patto di deduzione elude la disposizione di legge inderogabile (art. 1526 c.c.) e costituisce un aggiramento del regolamento imposto per ragioni di ordine pubblico economico". Le sentenze del 2018 e del 2019 non adottarono altra motivazione che richiamare la sentenza del 2017. Una motivazione, dunque, che trascura il contenuto effettivo della nozione di "ordine pubblico economico", come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte sopra ricordata.

3.8. La censura in esame va quindi rigettata in applicazione dei seguenti principi di diritto:

"nel contratto di leasing traslativo è valida ed efficace la clausola la quale stabilisca che, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, spettino al concedente i canoni già scaduti e i canoni ancora non maturati, scontati al momento della risoluzione del contratto, previa detrazione del valore di mercato del bene oggetto del contratto al momento della risoluzione".

"E' valido ed efficace il patto contenuto in un contratto di leasing traslativo il quale attribuisca al concedente, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, la facoltà di determinare unilateralmente il valore del bene oggetto del contratto, e sottrarlo dal credito residuo vantato nei confronti dell'utilizzatore. Tuttavia tale patto ha per corollario l'obbligo del concedente di stimare il bene secondo correttezza e buona fede; in caso di contestazione della stima da parte dell'utilizzatore, è onere del concedente palesare il criterio adottato, e del concederne dimostrarne l'erroneità".

"Il c.d. patto di deduzione, in virtù del quale nei contratti di leasing traslativo si stabilisce che il concedente, nel caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, ha diritto a titolo di penale al pagamento dei canoni scaduti e di quelli futuri, attualizzati al momento della risoluzione, previo diffalco di quanto ricavato dalla vendita del bene, deve essere interpretato ed applicato secondo correttezza e buona fede, con la conseguenza che:

a) se al momento in cui il concedente esige il proprio credito (restitutorio e/o risarcitorio) nei confronti dell'utilizzatore il bene è stato già rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il ricavato, salva la responsabilità del concedente ex art. 1227 c.c., comma 2, nel caso di vendita ad un prezzo vile per propria negligenza;

b) se al momento in cui esige il proprio credito nei confronti dell'utilizzatore il bene non è stato ancora rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il valore commerciale del bene, stimato col criterio del valore equo di mercato".

4. (B) Seconda questione: il limite del risarcimento all'interesse negativo.

I ricorrenti deducono, altresì, col proprio secondo motivo di ricorso che la Corte d'appello avrebbe violato l'art. 1526 c.c., in quanto tale norma consente al concedente di pretendere, in caso di soluzione del contratto, solo la remunerazione per il godimento del bene ("l'equo compenso"), ma non anche il mancato guadagno.

4.1. Anche questa censura è infondata.

I ricorrenti, infatti, sorreggono la propria tesi sovrapponendo istituti e regole giuridici diversi, e pervenendo di conseguenza ad esiti non corretti.

Dalla risoluzione del contratto scaturiscono effetti liberatori, restitutori e risarcitori.

L'art. 1526 c.c. disciplina gli effetti restitutori. Gli artt. 1218, 1223 e/o 1382 disciplinano gli effetti risarcitori.

In dottrina si è aspramente discusso, per decenni, se la risoluzione del contratto per inadempimento consenta al contraente fedele di domandare il risarcimento dell'interesse negativo (cioè dell'id quod interest contractum non fuisse), oppure dell'interesse positivo (e cioè il quantum lucrari potui). Questa Corte tuttavia ha sempre condiviso la prima soluzione (Sez. 2, Sentenza n. 1956 del 30/01/2007; Sez. 3, Sentenza n. 4473 del 28/03/2001; Sez. 3, Sentenza n. 1357 del 10/03/1981; Sez. 1, Sentenza n. 2696 del 06/11/1967), ed a tale orientamento il Collegio intende dare continuità. La tesi del diritto al risarcimento dell'interesse positivo è infatti preferibile poiché:

(a) l'art. 1453 c.c. consente alla parte fedele il rimedio sia dell'azione di adempimento, sia dell'azione di risoluzione e del risarcimento del danno; ma poiché l'azione di adempimento è senz'altro finalizzata al conseguimento dell'interesse positivo, il rimedio risarcitorio non potrebbe avere oggetto diverso, in virtù del c.d. principio di indifferenza del risarcimento del danno;

(b) se il risarcimento fosse limitato al solo interesse negativo, esso non potrebbe costituire un adeguato disincentivo all'inadempimento, in contrasto con la generale funzione di deterrence pacificamente attribuita alla responsabilità civile;

(c) l'art. 1518 c.c., nel fissare un criterio semplificato per il risarcimento del danno in caso di risoluzione del contratto di vendita, fa espresso riferimento alla lesione dell'interesse contrattuale positivo;

(d) se in caso di risoluzione fosse dovuto a titolo di risarcimento il solo interesse negativo, la responsabilità per inadempimento verrebbe a coincidere quoad effectum con la responsabilità precontrattuale, il che significherebbe trattare in modo uguale casi diversi.

4.2. Dai principi esposti consegue che:

-) la società concedente aveva diritto sia all'indennità per l'uso della cosa fino al momento della riconsegna, sia al risarcimento del danno;

-) nel caso di specie le parti avevano convenuto sia la misura dell'indennità, ai sensi dell'art. 1526 c.c., comma 2; sia la misura del risarcimento, ai sensi dell'art. 1382 c.c.;

-) la misura del risarcimento legittimamente ha tenuto conto dell'interesse positivo, ovvero del mancato guadagno;

-) le pattuizioni suddette sono pertanto lecite e valide.

Ben altra questione, ovviamente, è poi lo stabilire se la misura del risarcimento e della indennità prevista da quelle pattuizioni potessero o dovessero essere ridotte in quanto manifestamente eccessive. Ma naturalmente l'eccessività del quantum non comporta la nullità della clausola, ma solo la riduzione del risarcimento o dell'indennità, secondo quanto si dirà meglio nel p. che segue.

5. (C) Terza questione: la riduzione della penale.

Con la terza censura contenuta nel secondo motivo le ricorrenti deducono, infine, che la Corte d'appello avrebbe violato l'art. 1384 c.c..

L'avrebbe violato perché non ha ridotto una clausola penale manifestamente eccessiva.

La clausola penale si doveva ritenere eccessiva perché aveva avuto per effetto, nel caso concreto, di lasciare alla società concedente la proprietà dell'immobile, di incamerare i canoni già pagati, di pretendere il pagamento dei canoni futuri.

5.1. La censura è fondata.

Lo stabilire se una penale sia eccessiva è un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità.

Sindacabile in sede di legittimità è tuttavia il criterio adottato dal giudice di merito per valutare l'eccessività della clausola penale.

In materia di leasing traslativo, questa Corte ha già stabilito che il criterio da adottare per valutare l'eccessività del quantum previsto da una clausola penale consiste nello stabilire se, per effetto di essa, la parte non inadempiente possa conseguire un vantaggio addirittura superiore a quello che le sarebbe derivato dalla puntuale esecuzione del contratto.

5.2. Nel caso di specie la Corte d'appello premette (pagina 13, primo capoverso), che sarebbe illegittima una clausola la quale consentisse al concedente sia di incamerare l'intero importo del finanziamento, sia di trattenere la proprietà dell'immobile.

Tuttavia era stata la stessa società concedente (creditrice appellata ed odierna controricorrente) a dichiarare, nella propria comparsa conclusionale in grado di appello, che la società utilizzatrice "dopo un lungo ed ingiustificato ostruzionismo ha restituito l'immobile in data 5 marzo 2018"... La Corte d'appello, dunque, si è trovata ad esaminare un caso in cui la società concedente:

-) aveva incamerato i canoni scaduti e ottenuto la condanna della concedente al pagamento di quelli futuri;

-) aveva ottenuto la restituzione dell'immobile;

-) non aveva portato in diffalco dal proprio credito il valore commerciale dell'immobile.

Ci troviamo dinanzi dunque ad una sentenza la quale premette una regola astratta (impossibilità di cumulo di proprietà del bene, canoni scaduti e canoni futuri); accerta una situazione concreta perfettamente coincidente con quella regola; nega l'applicazione della regola.

La sentenza, pertanto, presenta un duplice vizio: da un lato l'illogicità manifesta (vizio che, se pur non espressamente nominato nell'epigrafe del motivo, è comunque adeguatamente invocato a pagina 24, ultimo capoverso, del ricorso); dall'altro la violazione dell'art. 1384 c.c., in quanto non ha ridotto la penale in una ipotesi in cui l'applicazione di essa ha consentito alla società concedente la realizzazione di un vantaggio patrimoniale superiore a quello derivante dalla corretta esecuzione del contratto.

6. Col terzo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1453 e 1460 c.c..

Sostiene una tesi così riassumibile: poiché la banca aveva applicato interessi usurari e inserita nel contratto una clausola nulla, essa si era per prima resa inadempiente alle proprie obbligazioni, con la conseguenza che legittimamente la società utilizzatrice aveva rifiutato di adempiere le proprie, ai sensi dell'art. 1460 c.c..

6.1. Il motivo resta assorbito dal rigetto del primo e dall'accoglimento parziale del secondo.

7. Col quarto motivo le ricorrenti lamentano l'erroneità della sentenza d'appello, nella parte in cui avrebbe trascurato di rilevare la nullità della fideiussione prestata dalla società Nicofin, in quanto accordata a condizioni imposte dalla società concedente e frutto di un illecito accordo limitativo della concorrenza intercorso tra vari istituti di credito.

7.1. Il motivo è inammissibile perché nuovo.

Dalla sentenza impugnata risulta infatti che la Nicofin nel giudizio di merito invocò la nullità della fideiussione solo a causa della nullità dell'obbligazione principale, e non per altre cause. Ne' le ricorrenti, in violazione dell'onere imposto a pena di inammissibilità dall'art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6, chiariscono nel ricorso in quale atto ed in quali termini abbiano ritualmente proposto la questione in esame.

8. Col quinto motivo di ricorso (contraddistinto dal numero "4": pagina 32 del ricorso) le ricorrenti prospettano sia il vizio di violazione di legge di cui all'art. 360 c.p.c., n. 3 (assumono violato l'art. 191 c.p.c.) sia il vizio di nullità processuale di cui all'art. 360 c.p.c., n. 4. Lamentano che il giudice di merito avrebbe "completamente omesso di pronunciare" sulla istanza di ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio finalizzata a ricostruire i rapporti di dare e avere tra le parti.

8.1. Il motivo resta assorbito dall'accoglimento del secondo motivo di ricorso.

9. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

() dichiara inammissibilile il primo motivo di ricorso; dichiara inammissibile il quarto motivo di ricorso; dichiara assorbiti il terzo ed il quinto motivo di ricorso;

(-) accoglie il secondo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata con riferimento al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte di cassazione, il 14 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2021