Giu Una volta che la sentenza d'appello sia stata impugnata per violazione della disciplina sulla sospensione della prescrizione l'intera fattispecie della prescrizione, anche con riguardo alla decorrenza del dies a quo, rimane sub iudice
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO - SENTENZA 04 ottobre 2022 N. 28565
Massima
«Una volta che la sentenza d'appello sia stata impugnata per violazione della disciplina sulla sospensione della prescrizione (nella specie, con riguardo all'occultamento doloso del debito contributivo, ai sensi dell'art. 2941, primo comma, n. 8, cod. civ.), l'intera fattispecie della prescrizione, anche con riguardo alla decorrenza del dies a quo, rimane sub iudice e rientra, pertanto, nei poteri del giudice di legittimità valutare d'ufficio, sulla scorta degli elementi ritualmente acquisiti, la corretta individuazione del termine iniziale della prescrizione, in quanto aspetto logicamente preliminare rispetto alla sospensione dedotta con il ricorso. La mancata proposizione di specifiche censure non determina la formazione del giudicato interno sul dies a quo della prescrizione dei contributi, differita dal d.P.C.m. 10 giugno 2010, in applicazione dell'art. 12, comma 5, del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241. Il giudicato, destinato a formarsi su un'unità minima di decisione che ricollega a un fatto, qualificato da una norma, un determinato effetto, investe la statuizione che dichiara prescritto un diritto e non le mere affermazioni, inidonee a costituire una decisione autonoma, sui singoli elementi della fattispecie estintiva, come la decorrenza del dies a quo».

Casus Decisus
RILEVATO CHE la Corte d'appello di Caltanissetta, con sentenza n. 98 del 2020, ha confermato la decisione di primo grado che aveva dichiarato M. S. non tenuta al versamento dei contributi, relativi all'iscrizione nella Gestione separata INPS, per l'anno 2009, per intervenuta prescrizione del credito. Per quanto solo di rilievo in questa sede, la Corte territoriale ha individuato come dies a quo del decorso della prescrizione quinquennale la scadenza del termine per il pagamento dei contributi, coincidente con quello in cui doveva essere versato il saldo risultante dalla dichiarazione dei redditi. In particolare, ha ritenuto tardiva, e quindi priva di valenza interruttiva, la richiesta di pagamento pervenuta 1'1.7.2015. Inoltre, ha escluso che l'omessa esposizione, nella dichiarazione dei redditi presentata nel 2010, degli obblighi contributivi connessi al lavoro autonomo (cd. quadro RR) equivalesse, ipso facto, alla volontà del debitore di occultare il proprio debito. L'incertezza normativa, all'epoca, in ordine ai presupposti dell'iscrizione, era palese, tanto da necessitare di una legge di interpretazione autentica, dagli esiti tutt'altro che chiarificatori, come testimoniato dai successivi contrasti in ambito giurisprudenziale; Avverso tale sentenza l'INPS ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, illustrato con memoria; la controparte ha resistito con controricorso. La Sesta sezione di questa Corte di Cassazione, con ordinanza n.8397 del 2022, ha disposto la rimessione della causa alla Sezione lavoro. La causa è stata tuttavia trattata in camera di consiglio, senza l'intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, in quanto nessuno degl'interessati ha formulato istanza di discussione orale ai sensi dell'art. 23, comma 8-bis, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176. Il Pubblico Ministero ha chiesto di rigettare il ricorso, in quanto inammissibile e comunque infondato: la questione della decorrenza della prescrizione non sarebbe stata correttamente introdotta nel processo. Le parti hanno depositato ulteriori memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO - SENTENZA 04 ottobre 2022 N. 28565 Berrino Umberto

CONSIDERATO CHE

Con l'unico motivo di ricorso, l'INPS ha dedotto, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell'art. 2935 c.c. e arrt. 2941 c.c., n. 8, in relazione alla L. n. 335 del 1995, art. 2, commi 26 - 31, al D.L. n. 98 del 2011, art. 18, comma 12, conv. dalla L. n. 111 del 2011, al D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 1 e al D.Lgs. n. 241 del 1997, art. 10, comma 1; Ha rilevato che l'attuale controricorrente, nella dichiarazione dei redditi relativa all'anno 2009, ha omesso di compilare il "Quadro RR" necessario per la determinazione dei contributi dovuti, così eludendo il relativo controllo automatico da parte degli uffici finanziari; Ha sostenuto, richiamando l'ordinanza della S.C. n. 6677 del 2019 e le successive ordinanze n. 19403 del 2019 e n. 30605 del 2019, come l'omessa compilazione del "Quadro RR" integrasse una condotta dolosa del professionista di occultamento del debito contributivo, con la conseguenza che il corrispondente diritto dell'Istituto non potesse considerarsi prescritto per l'operare della sospensione di cui all'art. 2941 c.c., n. 8. Nella memoria depositata ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c., l'INPS ha chiesto l'accoglimento del ricorso sul rilievo che non fosse maturata la prescrizione del credito contributivo, in ragione del differimento al 6.7.2010 del termine di versamento come disposto dal D.P.C.M. 10 giugno 2010, per i redditi 2009. Il ricorso è fondato, nei termini e per i motivi di seguito precisati. La questione rimessa dall'ordinanza interlocutoria concerne il tema della prescrizione dei contributi dovuti alla Gestione separata, sul quale sono oramai costanti gli orientamenti di questa Corte, confermati di recente con enunciazioni di principio che devono essere anche in questa sede ribadite. La prescrizione decorre «dal momento in cui scadono i termini per il relativo pagamento e non già dalla data di presentazione della dichiarazione dei redditi ad opera del titolare della posizione assicurativa (così, tra le tante, Cass. nn. 27950 del 2018, 19403 del 2019, 1557 del 2020): l'obbligazione contributiva nasce infatti in relazione ad un preciso fatto costitutivo, che è la produzione di un certo reddito da parte del soggetto obbligato, mentre la dichiarazione che costui è tenuto a presentare ai fini fiscali, che è mera dichiarazione di scienza, non è presupposto del credito contributivo, così come non lo è rispetto all'obbligazione tributaria» (sentenza n. 10273 del 2021, cit.; in senso conforme, anche Cass., sez. lav., 3 giugno 2022, n. 17970, punto 14). Per quanto il debito contributivo sorga sulla base della produzione di un certo reddito, la prescrizione dell'obbligazione decorre dal momento in cui scadono i relativi termini di pagamento, come dispone l'art. 55 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito, con modificazioni, nella legge 6 aprile 1936, n. 1155: i contributi obbligatori si prescrivono «dal giorno in cui i singoli contributi dovevano essere versati». I termini di versamento dei contributi sono definiti dall'art. 18, comma 4, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241: «i versamenti a saldo e in acconto dei contributi dovuti agli enti previdenziali da titolari di posizione assicurativa in una delle gestioni amministrate da enti previdenziali sono effettuati entro gli stessi termini previsti per il versamento delle somme dovute in base alla dichiarazione dei redditi». Quanto ai termini per il versamento delle somme dovute in base alla dichiarazione dei redditi, cui sono ancorati anche i termini per il pagamento dei contributi, riveste importanza essenziale l'art. 12, comma 5, del menzionato d.lgs. n. 241 del 1997. La disposizione citata demanda a un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri la possibilità di modificare i termini riguardanti gli adempimenti dei contribuenti relativi a imposte e contributi dovuti in base allo stesso decreto, tenendo conto delle esigenze generali dei contribuenti, dei sostituti e dei responsabili d'imposta o delle esigenze organizzative dell'amministrazione. Il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri rinviene dunque un inequivocabile fondamento normativo nella fonte primaria che ne autorizza l'intervento e si configura come un atto di natura regolamentare, in quanto concorre ad attuare e a integrare le previsioni del d.lgs. n. 241 del 1997 (sentenza n. 17970 del 2022, cit., punto 18; di recente, sempre in ordine ai d.p.c.m. in esame, Cass., sez. lav., 3 agosto 2022, n. 24047, punto 23, e Cass., sez. VI-L, 15 luglio 2022, n. 22336, e 11 luglio 2022, n. 21816). Quanto ai contributi relativi all'anno 2009, viene in rilievo il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 10 giugno 2010, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.141 del 19 giugno 2010. L'art. 1, comma 1, del d.p.c.m. così stabilisce: «I contribuenti tenuti ai versamenti risultanti dalle dichiarazioni dei redditi e da quelle in materia di imposta regionale sulle attività produttive entro il 16 giugno 2010, che esercitano attività economiche per le quali sono stati elaborati gli studi di settore di cui all'art. 62-bis del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331 convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, e che dichiarano ricavi o compensi di ammontare non superiore al limite stabilito per ciascuno studio di settore dal relativo decreto di approvazione del Ministro dell'economia e delle finanze, effettuano i predetti versamenti: a) entro il 6 luglio 2010, senza alcuna maggiorazione; b) dal 7 luglio 2010 al 5 agosto 2010, maggiorando le somme da versare dello 0,40 per cento a titolo di interesse corrispettivo». Si deve avere riguardo al primo termine del 6 luglio 2010, che la fonte regolamentare stabilisce per il pagamento dell'importo dovuto, senza maggiorazioni di sorta: è da tale momento che sorge l'obbligo contributivo e l'INPS può dunque far valere i propri diritti. Quanto alla latitudine soggettiva del differimento, questa Corte, alla luce dell'univoco dettato letterale della previsione regolamentare, ha chiarito che ne beneficiano tutti i contribuenti, allorché esercitano attività economiche per le quali sono stati elaborati gli studi di settore. Il differimento, dunque, non si applica soltanto a «coloro che, in concreto, alle risultanze di tali studi fossero fiscalmente assoggettati per non aver scelto un diverso regime d'imposizione» (sentenza n. 10273 del 2021, cit.). Pertanto, «ciò che rileva, ai fini di detto differimento, è il dato oggettivo dello svolgimento di un'attività economica riconducibile tra quelle per le quali siano state elaborati studi di settore e non la condizione soggettiva del singolo professionista di effettiva sottoposizione al regime fiscale derivante dall'adesione alle risultanze degli studi medesimi» (Cass., sez. VI-L, 11 agosto 2022, n. 24668; nello stesso senso, fra le molte, Cass., sez. VI-L, 26 luglio 2022, n. 23314 e n. 23309, punto 8, e Cass., sez. VI-L, 15 luglio 2022, n. 22336). La sentenza impugnata, nel far decorrere la prescrizione dal 16 giugno 2010, ha trascurato di tener conto del differimento al 6 luglio 2010, applicabile in base alle richiamate previsioni regolamentari, inscindibilmente connesse con la fonte primaria. La questione oggetto dell'ordinanza interlocutoria si appunta solo sulla sospensione della prescrizione. Il tema del dies a quo del relativo termine risulta prospettato nella memoria depositata in vista dell'adunanza camerale ai sensi dell'art. 380-bis, secondo comma, cod. proc. civ. L'ordinanza interlocutoria ha rimesso la causa a questa sezione allo scopo di valutare se, a fronte d'un ricorso così strutturato, sia rilevabile d'ufficio in questa sede - o sia per contro preclusa dal "giudicato interno" - la questione della corretta individuazione della decorrenza del termine di prescrizione dei contributi. L'individuazione del dies a quo della prescrizione non soltanto ha priorità logica rispetto al tema della sospensione, posto dal secondo motivo di ricorso, ma si rivela anche dirimente: la considerazione del dies a quo sancito dalla legge (6 luglio 2010) renderebbe efficace l'atto interruttivo ricevuto il 10luglio 2015 e potenzialmente superflua quella disamina sulla sospensione che il motivo di ricorso sottende. La questione rimessa alla pubblica udienza, che trascende il contenzioso sulla contribuzione previdenziale, si profila con caratteri peculiari, che non consentono di evincere elementi risolutivi dalle pronunce menzionate dall'Istituto nella memoria illustrativa depositata in prossimità dell'udienza. Nelle controversie decise con tali pronunce (Cass., sez. VI-L, 18 febbraio 2022, n. 5312, 3 febbraio 2022, n. 3457, e 14 ottobre 2021, n. 28123; Cass., sez. lav., 8 novembre 2021, n. 32467, 19 aprile 2021, n. 10273, e 23 febbraio 2021, n. 4899), l'individuazione del dies a quo della prescrizione formava oggetto di uno specifico motivo di ricorso e risultava dunque - senz'ombra di dubbio - controversa. Nel presente giudizio, le doglianze non investono ex professo l'identificazione del dies a quo del termine applicabile. Tale specificità ha generato i dubbi interpretativi, che sono all'origine della scelta di rimettere la causa alla pubblica udienza e di sollecitare così l'apporto dialettico del Pubblico Ministero e delle parti. L'analisi deve prendere le mosse dai tratti distintivi della prescrizione, che si riverberano anche sui profili processuali della rilevabilità d'ufficio e del giudicato interno, d'importanza cruciale ai fini dell'inquadramento dell'odierna questione. Elemento costitutivo della prescrizione (art. 2934 cod. civ.) è l'inerzia del titolare del diritto per il tempo determinato dalla legge (Cass., S.U., 25 luglio 2002, n. 10955). La parte, alla cui iniziativa l'eccezione è riservata (art. 2938 cod. civ.), ha soltanto l'onere di allegare tale elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare dell'effetto estintivo che scaturisce dal protrarsi dell'inattività (da ultimo, Cass., S.U., 13 giugno 2019, n. 15895, in tema di azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel rapporto di conto corrente). La determinazione della durata, necessaria per il verificarsi dell'estinzione, si configura come una quaestio iuris connessa all'identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale delineato dalla legge (sentenza n. 10955 del 2002, cit.). Spetta al giudice sussumere l'inerzia nel pertinente schema normativo astratto, che può divergere da quello indicato dalle parti e così condurre all'individuazione di un termine più esiguo o più ampio (Cass., sez. III, 7 maggio 2021, n. 12182). Come quaestio iuris si atteggia anche l'individuazione del momento iniziale della prescrizione, che costituisce il fulcro della questione prospettata con l'ordinanza interlocutoria. Il giudice è chiamato a valutare d'ufficio il momento iniziale, senza essere vincolato dalle deduzioni delle parti (di recente, Cass., sez. lav., 3 agosto 2022, n. 24047, punto 21; Cass., sez. VI-L, 10 novembre 2021, n. 33169, punto 10). L'erronea individuazione del termine applicabile, del suo inizio o del suo epilogo, non inficia, pertanto, la valida proposizione dell'eccezione (Cass., sez. lav., 27 ottobre 2021, n. 30303; Cass., sez. I, 27 luglio 2016, n. 15631), in quanto involge aspetti eminentemente giuridici, rimessi per loro natura al vaglio del giudice (iura novit curia). Tale vaglio s'impone anche in sede di legittimità, a condizione che non siano necessari accertamenti di fatto. Accertamenti che il caso di specie non richiede, poiché l'exordium praescriptionis è sancito una volta per tutte, con portata generale, da un atto normativo. Rilevabili d'ufficio, purché emergano dalle prove acquisite, sono anche gli ulteriori profili che attengono alla durata e al decorso del termine. Integrano dunque eccezioni in senso lato, per giurisprudenza consolidata, i fatti interruttivi (Cass., S.U., 27 luglio 2005, n. 15661) e le cause di sospensione (Cass., sez. II, 30 settembre 2016, n. 19567). In tal senso milita la considerazione che le eccezioni siano riservate alla parte solo quando la manifestazione della sua volontà sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente contemplino come indispensabile l'iniziativa di parte. In ogni altro caso, si devono ritenere rilevabili d'ufficio i fatti modificativi, impeditivi o estintivi che risultano dal materiale probatorio legittimamente acquisito (Cass., S.U., 3 febbraio 1998, n. 1099). La rilevabilità d'ufficio è funzionale alla salvaguardia della giustizia della decisione (Cass., S.U., 7 maggio 2013, n. 10531). Esigenza che si coglie in termini ancor più pregnanti nella materia previdenziale, permeata da interessi che travalicano i diritti individuali e perciò contraddistinta dal ruolo strategico dello Stato (art. 38, terzo comma, Cost.), chiamato ad assicurare, in una prospettiva solidaristica e di più efficace tutela degli stessi diritti dei singoli, la sostenibilità del sistema complessivamente inteso. Una volta che sia stato dedotto l'elemento costitutivo dell'eccezione di prescrizione, sarà il giudice, pertanto, anche in sede di legittimità, a individuare la disciplina appropriata e a scrutinare i fatti che incidono sulla durata del termine di prescrizione, al fine di verificare se sia decorso invano il tempo «determinato dalla legge» in base a una normativa che la legge stessa qualifica come inderogabile (art. 2936 cod. civ.). Né la rilevabilità d'ufficio stride con l'esigenza, posta in risalto dalle conclusioni motivate del Pubblico Ministero (pagina 2), di una rituale introduzione del tema della prescrizione nella dialettica del processo. È ben vero che la parte, nell'allegare l'inattività del titolare del diritto, ha l'onere di specificare le coordinate temporali e le circostanze di fatto che la connotano. Dev'essere condiviso, pertanto, l'orientamento richiamato dal Pubblico Ministero: allorché sia eccepita la prescrizione concernente la fase anteriore alla notificazione delle cartelle esattoriali, non sì può rilevare d'ufficio la prescrizione maturata in epoca successiva alla notificazione (Cass., sez. VI-L, 23 maggio 2019, n. 14135). La ratio decidendi della pronuncia citata s'incentra sulla diversità del contesto temporale in cui la fattispecie estintiva si colloca. Tale diversità non tocca il mero profilo della qualificazione giuridica, che è appannaggio del giudice: quel che muta, in questo frangente, è proprio il fatto dell'inerzia, storicamente delineato, che costituisce l'elemento costitutivo dell'eccezione di prescrizione. Nell'odierno giudizio, per contro, non muta l'elemento costitutivo dell'eccezione, che si sostanzia pur sempre nella prolungata inattività dell'Istituto nella riscossione dei contributi. Non mutano neppure i fatti che permettono l'esercizio del diritto e dunque determinano la decorrenza della prescrizione, in correlazione con la scadenza del termine per il versamento dei contributi. Oggetto di disputa è solo la disciplina legale che regola tale termine e che concorre dunque a definire il tempo «determinato dalla legge» (art. 2934 cod. civ.), indispensabile per il compiersi della prescrizione. L'individuazione d'una diversa scadenza non esorbita dunque dai fatti ritualmente allegati e non ne altera il nucleo essenziale: essa investe la qualificazione giuridica dei fatti, sui quali il contraddittorio processuale ha avuto modo di dispiegarsi appieno. La rilevabilità d'ufficio non contraddice, pertanto, le condizioni di specifica e tempestiva allegazione degli elementi costitutivi dell'eccezione. Permane inalterato, peraltro, anche il regime di prescrizione applicabile, con il correlato termine quinquennale. Qualificata come quaestio iuris l'individuazione del dies a quo della prescrizione, il punto nodale è se la mancata impugnazione delle statuizioni adottate a tale riguardo dalla Corte di merito determini il formarsi di un giudicato, idoneo a precludere il rilievo d'ufficio. La regola della rilevabilità d'ufficio di determinate questioni, in ogni stato e grado del processo, dev'essere coordinata con i principi che governano il sistema delle impugnazioni e opera solo quando, su tali questioni, non si sia formato il giudicato interno, atto a precluderne in radice l'ulteriore esame. Anche per quel che concerne la materia previdenziale, tale regola è stata ribadita a più riprese: il giudicato interno costituisce un limite al rilievo ufficioso nel caso di questioni inerenti al difetto di legittimazione passiva (Cass., sez. lav., 21 dicembre 2021, n. 41019), all'improponibilità della domanda giudiziale per la mancata presentazione della domanda amministrativa di prestazione previdenziale o assistenziale (Cass., sez. lav., 29 dicembre 2004, n. 24103), alla decadenza sostanziale per l'inosservanza del termine di centoventi giorni previsto, con riguardo alla disoccupazione agricola, dall'art. 22 del decreto-legge 3 febbraio 1970, n. 7, convertito, con modificazioni, nella legge 11 marzo 1970, n. 83 (Cass., sez. VI-L, 25 agosto 2020, n. 17653). 14.- In relazione alle fattispecie di volta in volta scrutinate e alla struttura che ciascuna di esse presenta, occorre enucleare quale sia la singola statuizione suscettibile di acquisire, nel contesto della decisione, la stabilità del giudicato. A tale riguardo, soccorrono gli artt. 329, secondo comma, e 336, primo comma, cod. proc. civ.: dettate nell'ambito della disciplina generale sulle impugnazioni (Libro II, Titolo III, Capo I), tali previsioni devono essere inquadrate in una prospettiva sistematica. In virtù della prima disposizione, l'impugnazione su una parte della sentenza implica acquiescenza «alle parti della sentenza non impugnate», con conseguente formazione del giudicato. Di "parte della sentenza" discorre anche la seconda previsione, che estende gli effetti della riforma o della cassazione parziale alle parti della sentenza che dipendono dalla parte riformata o cassata. L'impugnazione della parte principale della decisione impedisce la formazione del giudicato interno sulla parte che da essa dipende, in virtù di un nesso di causalità imprescindibile (Cass., S.U., 27 ottobre 2016, n. 21691). Dalla connessione tra le disposizioni richiamate, traspare che la parte non impugnata d'una sentenza ha il crisma del giudicato allorché si riscontrino due condizioni, l'una positiva e l'altra negativa: essa si deve fondare su presupposti di fatto e di diritto diversi e autonomi rispetto alla parte impugnata e alla parte impugnata non dev'essere legata da alcun rapporto di pregiudizialità o di consequenzialità. Ciò posto, si deve puntualizzare che il giudicato non si forma sulla singola affermazione di diritto o sull'accertamento d'un fatto, ma sulla statuizione che afferma l'esistenza di un fatto, dopo averlo sussunto entro una norma che al fatto ricolleghi un dato effetto giuridico (Cass., sez. lav., 8 aprile 2000, n. 4478; in senso conforme, Cass., sez. lav., 20 dicembre 2006, n. 27196). Il giudicato cade, pertanto, sull'unità minima di decisione, che si compone della sequenza fatto, norma ed effetto e risolve, nell'ambito della controversia, una questione dotata d'una propria autonomia e d'una propria individualità. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento della sequenza possa essere oggetto di censura, nondimeno l'impugnazione motivata anche in ordine a uno solo di essi riapre la cognizione sull'intera statuizione (Cass., sez. lav., 4 febbraio 2016, n. 2217). L'impugnazione conferisce al giudice il potere di riconsiderare e riqualificare la fattispecie anche relativamente agli aspetti che, pur coessenziali, non siano stati singolarmente censurati, neppure in via implicita (Cass., sez. III, 16 maggio 2017, n. 12202). Nel declinare tali principi con riguardo alla prescrizione, questa Corte ha affermato che «Le questioni il cui esame può essere precluso dal giudicato interno non sono [...] costituite dai singoli quesiti su fatto, norma ed effetto che ogni domanda ed ogni eccezione pongono al giudice, ma dalla loro congiunzione. La statuizione sulla quale poteva formarsi nella specie il giudicato era quindi quella avente ad oggetto la fattispecie prescrizione: l'inerzia del titolare e l'idoneità concreta della stessa ad estinguere il diritto. Ma la deduzione da parte del ricorrente di fatti impeditivi della prescrizione ha sottratto tale statuizione al giudicato interno» (Cass., sez. lav., 29 ottobre 1998, n. 10832). Il giudicato dunque si forma sulla statuizione che concerne la fattispecie della prescrizione, considerata nella sua unità indissolubile e nella sua idoneità a estinguere il diritto, dopo il decorso di un tempo che non può essere disarticolato negli elementi che intervengono a definirlo. Non assurge, per contro, alla stabilità del giudicato l'affermazione sui singoli e irrelati segmenti della fattispecie, che, di per sé soli, sono inidonei a produrre qualsiasi effetto giuridicamente rilevante e, solo nel loro interagire, assumono significato nel mondo del diritto. In consonanza con tali indicazioni, questa Corte ha specificato che, ove s'impugni la sentenza che ha dichiarato prescritto il diritto per violazione della disciplina concernente l'interruzione, anche in sede di legittimità si può estendere la verifica a tutti i punti in cui è possibile scomporre la decisione sulla prescrizione: il principio "iura novit curia" può e deve trovare applicazione nell'intero ambito della parte di sentenza non coperta dal giudicato interno (Cass., sez. lav., 21 dicembre 1999, n. 14421, e, sempre con riguardo all'interruzione della prescrizione, Cass., sez. III, 10 luglio 2013, n. 17066). Tali conclusioni si attagliano anche all'ipotesi in cui le doglianze riguardino le cause di sospensione della prescrizione, che interferiscono con il decorso del termine e ne influenzano la complessiva durata. La sospensione del termine di prescrizione e la corretta identificazione del termine iniziale di decorrenza non rappresentano profili distinti, avulsi l'uno dall'altro. La sospensione della prescrizione non può che essere valutata rispetto a un termine correttamente individuato nel suo esordio. Solo dal momento in cui il diritto può esser fatto valere e dunque prende avvio la prescrizione, si possono apprezzare eventuali fatti idonei a sospenderne il corso. Pertanto, l'impugnazione del profilo consequenziale della sospensione mantiene ancora viva e controversa anche la questione concernente l'identificazione del dies a quo e anche su tale tema si riespande la cognizione di questa Corte, chiamata a individuare l'esatto diritto applicabile alla luce degli elementi ritualmente allegati. Erroneamente, dunque, la Corte territoriale ha fatto decorrere il termine di prescrizione dal 16 giugno 2010, senza tener conto del differimento al 6 luglio 2010, sancito dal 'art. 1, comma 1, del d.P.C.m. 10 giugno 2010. Si deve enunciare, in conclusione, il seguente principio di diritto: «Una volta che la sentenza d'appello sia stata impugnata per violazione della disciplina sulla sospensione della prescrizione (nella specie, con riguardo all'occultamento doloso del debito contributivo, ai sensi dell'art. 2941, primo comma, n. 8, cod. civ.), l'intera fattispecie della prescrizione, anche con riguardo alla decorrenza del dies a quo, rimane sub iudice e rientra, pertanto, nei poteri del giudice di legittimità valutare d'ufficio, sulla scorta degli elementi ritualmente acquisiti, la corretta individuazione del termine iniziale della prescrizione, in quanto aspetto logicamente preliminare rispetto alla sospensione dedotta con il ricorso. La mancata proposizione di specifiche censure non determina la formazione del giudicato interno sul dies a quo della prescrizione dei contributi, differita dal d.P.C.m. 10 giugno 2010, in applicazione dell'art. 12, comma 5, del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241. Il giudicato, destinato a formarsi su un'unità minima di decisione che ricollega a un fatto, qualificato da una norma, un determinato effetto, investe la statuizione che dichiara prescritto un diritto e non le mere affermazioni, inidonee a costituire una decisione autonoma, sui singoli elementi della fattispecie estintiva, come la decorrenza del dies a quo».

La sentenza impugnata, pertanto, va cassata, in relazione al profilo preliminare dell'individuazione del dies a quo della prescrizione. Restano assorbiti gli ulteriori profili, dedotti con il motivo di ricorso. La causa va rinviata alla Corte d'appello di Caltanissetta, in diversa composizione, che dovrà scrutinare il tema prescrizione dei contributi alla luce degli enunciati principi di diritto e provvederà anche a liquidare le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla Corte d'appello di Caltanissetta, in diversa composizione.