Giu Aggravante del reato di falso
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 14 giugno 2021 N. 23239
Massima
Perché ricorra il reato di cui all'art. 476, comma 2, c.p. non è sufficiente che l'atto sia formato da un pubblico ufficiale nell'esercizio legittimo di una speciale funzione pubblica di attestazione, ma è necessario altresì che la falsità investa fatti che il pubblico ufficiale riferisca come visti, uditi o direttamente da lui compiuti.

Casus Decisus
Il Tribunale di Firenze con sentenza del 26 maggio 2017 assolveva sei medici in servizio con varie funzioni presso un’Azienda Ospedaliera Universitaria per varie contestazioni di abuso di ufficio, falso ideologico e peculato, per aver riportato delle diagnosi non corrette per giustificare l'urgenza dell'attività medica al fine di non fare pagare a un paziente spagnolo il costo della prestazione, 271 Euro, che era a suo carico, perché aveva dimenticato di portare con sé dalla Spagna la tessera di riconoscimento della assistenza sanitaria Europea, che gli avrebbe comunque consentito di ottenere la prestazione gratuitamente. A seguito di appello del procuratore generale, la Corte di appello di Firenze, con sentenza del 7 novembre 2019, condannava tre degli imputati per falso ideologico, confermando nel resto le assoluzioni. Avverso tale sentenza proponevano ricorso il gli imputati condannati, deducndo violazione di legge in relazione 476, comma 2, c.p.

Annotazione
Quando può dirsi sussistente l’aggravante del reato di falso commesso dal pubblico ufficiale di cui all’art. 476 , comma 2, c.p.? Questa la questione cui la Suprema Corte dà risposta nella sentenza in epigrafe. I giudici di legittimità evidenziano che la falsità riguarderebbe la individuazione della patologia e la urgenza del suo trattamento. Invero, non può qualificarsi come "facente prova sino a querela di falso" ai sensi dell'art. 2700 c.c. la "valutazione" sulla patologia. Pertanto, non è sufficiente, perché ricorra il reato come aggrvato, che l'atto sia formato da un pubblico ufficiale nell'esercizio legittimo di una speciale funzione pubblica di attestazione, munita cioè di una particolare capacità probatoria rispetto ai fatti da lui compiuti o in sua presenza avvenuti ma è anche necessario che la falsità investa fatti che il pubblico ufficiale riferisca come visti, uditi o direttamente da lui compiuti" .

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 14 giugno 2021 N. 23239 Pres. Petruzzellis – est. Di Stefano

RITENUTO IN FATTO.

 

Il Tribunale di Firenze con sentenza del 26 maggio 2017 assolveva M.P., G.A., C.A., M.F., R.P. e J.M.O., medici in servizio con varie funzioni presso la Azienda Ospedaliera Universitaria di (OMISSIS), per varie contestazioni di abuso di ufficio, falso ideologico e peculato, vicende connesse alle attività di M. presso il Dipartimento di chirurgia toracica.

In tale processo il pubblico ministero aveva concluso chiedendo la assoluzione nel merito per tutti i reati salvo per il reato di abuso di ufficio di cui al capo O per il quale chiedeva per il solo M. l'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p..

A seguito di appello del procuratore generale, la Corte di appello di Firenze, con sentenza del 7 novembre 2019, condannava M. per due contestazioni di falso ideologico (capi M e N), nonché G. e M. per una contestazione di falso ideologico (capo N) confermando nel resto le assoluzioni.

1.1. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso il procuratore generale presso la Corte di appello di Firenze e gli imputati condannati, con motivi che verranno dopo sintetizzati.

2. Si espongono, quindi, i fatti nei limiti di quanto utile.

2.1. capi I e L (reati di peculato, contestati al solo M.)

M. aveva partecipato a due operazioni chirurgiche percependo compensi senza versare alcuna quota all'ospedale pubblico (OMISSIS) con il quale aveva un contratto di collaborazione:

- operazione del (OMISSIS), in ausilio della dottoressa T. che operava in regime intramurale presso gli OO.RR. di Ancona:

- operazione del (OMISSIS) in regime privatistico presso la clinica (OMISSIS).

Secondo l'accusa, mentre di norma il M. poteva operare presso strutture convenzionate con l'ospedale (OMISSIS) che avrebbe dovuto percepire l'intera somma rilasciando fattura al paziente, in questi due casi aveva effettuato le attività chirurgiche a titolo personale senza versare la quota del 5% all'Ospedale (OMISSIS).

Secondo la decisione di entrambi i giudici di merito, tali operazioni chirurgiche erano state svolte senza autorizzazione della azienda di appartenenza e, quindi, in modo del tutto abusivo rispetto all'impegno contrattuale. Essendo attività estranee alle attività di ufficio, non era configurabile il peculato.

2.2. Capi M (falso ex artt. 476 e 479 c.p. - occultamento della lettera di dimissioni e attestazione "annullato" nella prima scheda di accettazione del paziente C.L.), N (falso ex artt. 476 e 479 c.p. - falsa attestazione della "dispnea acuta" di C.L.) e O (abuso di ufficio in favore di C.L.).

Il (OMISSIS) C.L., cittadino spagnolo che già era stato operato in (OMISSIS) dal M. per un tumore tracheale, era sottoposto a fibrobroncoscopia presso l'ospedale (OMISSIS) da M. e da J.M., chirurgo in rapporto di collaborazione continuativa con lo stesso Ospedale.

Il paziente fu dimesso in giornata.

2.3. Con riferimento a tale intervento, secondo la descrizione della Corte di appello, agli atti dell'A.O. risultava tale documentazione:

- una scheda di accettazione con data (OMISSIS), ore 17, con firma illeggibile con diagnosi di "sindrome vertiginosa in pregresso carcinoma adenoidea"; con crocetta apposta sulla casella prestampata era segnalata la caratteristica di "urgente". Di tale atto esistono due copie, non rinvenendosi invece l'originale, non presente nella cartella clinica.

- una seconda scheda di accettazione con data (OMISSIS), priva di orario, con diagnosi di "esame endoscopico tracheobronchiale indifferibile per dispnea acuta in paziente sottoposto a resezione tracciato bronchiale pneumonectomia con carena"; con crocetta apposta sulla casella prestampata era segnalata la caratteristica di "urgente". L'atto era firmato dal Dott. G. che confermava di averlo redatto il 24 febbraio 2011. Tale seconda scheda risulta presente nella cartella clinica.

- Una lettera di dimissione archiviata in un computer del reparto di chirurgia toracica ma non presente nella cartella clinica. Il dottor J. riferiva di aver dettato il contenuto alla specializzanda B. all'esito della broncoscopia. In tale atto si riporta che al paziente C. era stata effettuata una broncoscopia in day surgery.

- Dal sistema informatico risultava una "scheda nosologica di dimissione ordinaria" redatta il 24 febbraio 2011 dal Dott. M.. In questo atto la diagnosi era di "dispnea in pregressa pneumonectomia".

2.4. Secondo la impostazione originaria dell'accusa, si era in presenza di atti di contenuto falso e di un abuso di ufficio: gli interessati avevano riportato delle diagnosi non corrette per giustificare l'urgenza dell'attività medica al fine di non fare pagare al paziente il costo della prestazione, 271 Euro, che era a suo carico perché aveva dimenticato di portare con sé dalla Spagna la tessera di riconoscimento della assistenza sanitaria Europea che gli avrebbe comunque consentito di ottenere la prestazione gratuitamente.

2.5. Il primo giudice aveva assolto tutti gli imputati con le seguenti argomentazioni:

- "la lettera di dimissioni (e) del (OMISSIS) non fu occultata, tanto che venne consegnata alla moglie di C. e archiviata nella memoria di un computer";

- la prima scheda di accettazione non fu scritta da G. e non è dimostrato che l'infermiere M. l'avesse compilata secondo le disposizioni di M.;

- quanto alla seconda scheda di accettazione, la prova della inesistenza della patologia in essa rappresentata, la dispnea, era alquanto debole;

- non era configurabile l'abuso di ufficio, come ipotizzato, perché il paziente aveva diritto alla assistenza sanitaria gratuita.

2.3. La Corte di Appello giungeva, invece, alla condanna di M. per i capi M ed N (in esso assorbito l'abuso di ufficio del capo O) e alla condanna di G. e M. per il solo capo N ricostruendo i fatti come segue:

era stata creata ex post e falsamente una condizione di "urgenza" al fine di giustificare la gratuità dell'intervento in favore del C., altrimenti tenuto a pagare Euro 270 per la prestazione fruita non avendo portato con sé la tessera sanitaria che gli consentiva di accedere comunque alla prestazione a carico del sistema sanitario:

- pur se risultava dai documenti che il C. era stato sottoposto a "broncoscopia flessibile" finalizzata a verificare se i suoi disturbi respiratori dipendessero da recidiva tumorale, con l'eventuale necessità di un intervento chirurgico immediato, la Corte, però, rilevava delle "criticità" per ritenere che si trattasse di attività urgente. Innanzitutto, in quanto "non vi è univocità sul tipo (ed intensità) delle difficoltà respiratorie del C.". Poi, una volta fatta la broncoscopia, che escludeva immediatamente la recidiva tumorale, "si dimette subito il C., rinunciando così a capire cosa causerebbe la dispea acuta", dal che la Corte opina che "tale patologia non vi fosse, o almeno che non fosse così grave"; la conclusione, quindi, è che si trattava di un controllo periodico o tutt'al più prudenziale e non un controllo urgente.

Alla luce di queste notazioni, la Corte giungeva alla conclusione che la prima diagnosi, che non era compatibile con lo stato di salute del C., fosse finalizzata a far risultare una urgenza che non vi era mentre la seconda scheda di accettazione fu fatta sei giorni dopo al solo fine di archiviare la pratica.

2.6. In definitiva: la falsa rappresentazione di dispnea acuta fu ipotizzata da M. e G. a posteriori per giustificare il mancato pagamento della prestazione. Avevano quindi voluto coprire l'operato di M. che aveva volute consentire al paziente di avere la prestazione gratuitamente, nonostante l'Ufficio accettazione avesse diagnosticato una labirintite.

2.7. Con il capo P (abuso di ufficio) e con il capo S (falso ideologico) sono state contestate presunte gestioni preferenziali di pazienti riconducibili al M.. Gli interventi in loro favore sono stati anticipati, secondo l'accusa, affermando inesistenti ragioni di urgenza:

- per 80 pazienti in lista di attesa sarebbe stata anticipata la data della operazione rispetto alla lista operatoria in cui erano inseriti;

- per 15 pazienti sarebbe stata effettuata l'operazione in urgenza pur se non erano ancora in lista.

La Corte di Appello, dopo l'assoluzione in primo grado sul presupposto che non fosse affatto dimostrata la assenza delle ragioni di urgenza, in risposta ai motivi di appello considerava:

- Le liste operatorie erano predisposte dal direttore del dipartimento S. e da altro medico in servizio, N.;

- risultavano talune pressioni fatte dai dottori G. e J. per inserire taluni pazienti del M. nelle liste operatorie, ma si trattava di fatti non oggetto di contestazione;

- risultavano, invece, effettivamente delle liste operatorie nelle quali erano poi inseriti nomi non presenti in origine. I principali elementi significativi al riguardo erano rappresentati dalle dichiarazioni del teste F., anestesista presente in tali occasioni, il quale, rispondendo alle domande mirate, aveva ipotizzato che vi fosse forzatura dei casi di presunta urgenza per la presenza del M. solo nei giorni corrispondenti.

Con riferimento a questi ultimi casi, gli unici oggetto della contestazione, la Corte di appello riteneva che non fosse dimostrata alcuna pressione perché la lista venisse modificata dai soggetti autorizzati a intervenire sul sistema informatico ( S., N. e U.).

Per quanto riguarda, invece, l'intervento diretto in sala operatoria per le ragioni di urgenza, la istruttoria dibattimentale non aveva consentito di escludere che l'urgenza fosse effettiva: le dichiarazioni dei testi S. e F., apparentemente nel senso del non esservi tale urgenza, erano però incerte sia perché non riferivano fatti specifici bensì esprimevano valutazioni che la Corte riteneva di per sé opinabili, soprattutto in considerazione del contesto di forte contrapposizione personale per ragioni lavorative con gli imputati. Per il resto, non vi sono state valutazioni specifiche per i vari casi ma vi è stata solo una affermazione generica di non urgenza dei "pazienti di M.".

Peraltro, in tutti questi casi, pur volendo ritenere dimostrata la mancanza delle ragioni di urgenza, non era possibile individuare in base alle indagini chi avesse modificato le liste, essendovi quindi un risultato incerto dell'attività istruttoria non superabile, essendo inutile anche la ripetizione delle prove richiesta dal procuratore generale.

2.8. Capo Q contestazione di falso ideologico.

Si tratta di sette interventi chirurgici in cui fra gli operatori è indicata la presenza del M. che, invece, non è indicato nelle schede anestesiologiche degli stessi interventi.

Già il giudice di primo grado aveva assolto ritenendo che non fosse effettivamente esclusa la presenza attiva del M. o quantomeno anche una sua forma di partecipazione alle attività di camera operatoria, risultando che le cartelle anestesiologiche potevano avere un contenuto impreciso.

Anche in questo caso le dichiarazioni testimoniali degli anestesisti presenti in quelle occasioni non potevano essere di assoluta affidabilità sia perché riferibili alla sola presenza del chirurgo al tavolo operatorio, non potendo invece escludere che M. svolgesse le sue attività di "tutoraggio", sia per essere le dichiarazioni degli anestesisti evidentemente anche condizionate dalla forte conflittualità personale con lo stesso chirurgo.

La Corte di appello in risposta alle obiezioni del pubblico ministero appellante considerava come fossero evidenti gli errori delle cartelle anestesiologiche tali da renderle inaffidabili non essendo in grado di dimostrare con certezza quali fossero i chirurghi presenti. In definitiva, comunque, non era stato possibile individuare chi avesse compilato le schede chirurgiche.

3. Ricorso del procuratore generale della Corte di appello di Firenze nei confronti di M.P., C.A., M.F., G.A., R.P.).

Primo motivo: violazione dell'art. 603 c.p.p., comma 3 bis, con riferimento ai capi P, S e Q.

La sentenza impugnata è stata emessa senza procedere a rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale pure richiesta dal pubblico ministero; la Corte di Appello ha ritenuto che non si discutesse di errata valutazione ma di mero travisamento delle prove da parte del giudice di primo grado.

L'ufficio appellante aveva però rappresentato come vi fosse stata un'immotivata svalutazione della affidabilità delle testimonianze prodotte dalla parte pubblica: il Tribunale aveva accolto le tesi della difesa non considerando le diverse testimonianze dei testi di accusa e degli infermieri che rappresentavano come M. utilizzasse in forma privatistica la struttura pubblica. Pertanto "il pubblico ministero sottolineava dunque la necessità di riesaminare innanzitutto le testimonianze.... rese da R.M., ufficiali di polizia giudiziaria, S.P. e A.F.... e di ripercorrere i passi salienti, erroneamente valutati o del tutto trascurati, delle testimonianze di altre persone".

A tali premesse nel corpo del motivo il procuratore generale "per comodità di lettura" aggiungeva la trascrizione degli argomenti a sostegno dell'appello quanto ai capi P, S e Q.

Secondo motivo: violazione dell'art. 314 c.p. rispetto ai capi I e L.

Secondo il ricorrente l'imputato aveva svolto il ruolo di esattore della sua azienda sanitaria avendo operato nelle strutture esterne quale sanitario della azienda Ospedaliera di (OMISSIS).

3.1. Con riferimento a tale impugnazione J.M.O. ha presentato una memoria a mezzo del difensore con la quale rileva che nei suoi confronti non è stato proposto ricorso in quanto il suo nominativo non è citato nell'atto del procuratore generale. In ogni caso, rileva che il ricorso è inammissibile.

3.2. Ricorso nell'interesse di M..

Primo motivo, capi M e N: violazione di legge per violazione del principio di correlazione quanto alla aggravante di cui all'art. 476 c.p., comma 2. Tale aggravante non è stata espressamente contestata nel capo di imputazione con formulazione esplicita o con l'indicazione della norma di legge. Quindi, attesa la misura della pena prevista per i reati non aggravati, gli stessi sono prescritti.

Secondo motivo, quanto al capo N: vizio di motivazione per essere stato ribaltato il giudizio di primo grado senza la nuova assunzione, ex art. 603 c.p.p., comma 3 bis, delle prove orali diversamente valutate.

Il primo giudice aveva ricostruito la vicenda nel senso che non si poteva escludere che l'esame diagnostico di fibrobroncoscopia fosse urgente.

Il giudice di secondo grado ha ritenuto che gli elementi raccolti nel primo giudizio non avessero dimostrato che il paziente versasse in condizioni di dispnea. E, quindi, andava esclusa l'urgenza del ricovero.

Tale decisione è passata necessariamente per una diversa valutazione delle prove raccolte.

Terzo motivo, quanto al capo N: vizio di motivazione per violazione del canone dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio".

La stessa sentenza, esponendo le presunte "criticità" del caso, ha confermato che il paziente C. si trovava in uno stato di difficoltà respiratoria cronica, che sin dal mese di gennaio soffriva di apnea e difficoltà della respirazione pur se poi ha affermato che non vi è dimostrazione della dispnea e della urgenza dell'accertamento.

La sentenza, quindi, sbaglia nel sovrapporre la gravità delle manifestazioni di dispnea con il dato cronologico della più recente evoluzione dei sintomi. Erroneamente utilizza ex post le avvenute dimissioni del paziente subito dopo la fibrobroncoscopia per escludere la gravità iniziale delle sue condizioni.

Peraltro, sul punto ha smentito le considerazioni di tutti i medici e del consulente tecnico.

La sentenza fa riferimento a una presunta rilevazione di una iniziale diagnosi non urgente che non ha alcun riscontro in atti.

- non risulta affatto che l'ufficio accettazione rilevò che la diagnosi iniziale non fosse urgente rappresentando semplicemente che la mancanza della tessera imponeva il pagamento.

- Il primo giudice afferma che la scheda di accettazione con la errata diagnosi di sindrome vertiginosa fu scritta dall'infermiere M. che poi la annullò; la Corte di appello afferma in contrasto che non è stata accertata con certezza quale medico la compilò, escamotage che le ha consentito di sostenere che si trattasse di un falso. Invero, la Corte non ha giustificato perché abbia cambiato prospettiva rispetto al primo giudice.

In ogni caso, certamente non sono state valutate specifiche risultanze istruttorie risultanti dagli atti:

La Corte di merito non tiene conto che la sentenza di primo grado ha espressamente riferito che il C. successivamente trasmise all'amministrazione la prova della disponibilità della assistenza sanitaria Europea e, quindi, del suo diritto all'assistenza gratuita. Viene, quindi, del tutto meno il movente di evitare il pagamento delle prestazioni. Né si è considerata la dichiarazione della moglie della paziente che, invitata a regolarizzare il pagamento della prestazione, non poté farlo perché l'ufficio aveva ormai chiuso.

Quarto motivo, quanto al capo N: violazione di legge e vizio di motivazione quanto al concorso morale nel falso ideologico e al contributo del ricorrente. Secondo la prospettiva della stessa sentenza il ricorrente avrebbe concorso in un reato di falso in termini di mera adesione ad un piano già ideato.

Quinto motivo, quanto al capo M: violazione di legge per assenza di motivazione e, comunque, vizio di motivazione. Nella sentenza non si rinviene alcun argomento per giustificare la responsabilità in ordine a tale reato. Non vi è stata alcuna critica dei motivi di assoluzione della sentenza del Tribunale.

Sesto motivo, quanto al capo M: vizio di motivazione e violazione di legge. Si ritiene la responsabilità del ricorrente per aver indotto in errore chi ebbe a redigere la prima scheda di accettazione ma si conferma che non risulta affatto individuato chi la compilò. Peraltro, dovendo attribuirsi l'annullamento al G., nei suoi confronti è stata disposta l'assoluzione per cui non può essere stato lui il soggetto indotto in errore.

settimo motivo: violazione di legge per avere applicato l'aggravante del nesso teologico nonostante l'assorbimento dell'abuso di ufficio nei reati di falso.

3.3. Ricorso nell'interesse di G.A..

Primo motivo, violazione dell'art. 603 c.p.p., comma 3 bis. Il giudice di appello ha escluso la condizione di dispnea acuta del paziente valutando diversamente le prove testimoniali e la consulenza tecnica.

Vi è stata quindi violazione dell'obbligo di procedere alla ripetizione delle prove orali per poter giungere alla conclusione di condanna.

Secondo motivo, vizio di motivazione. La violazione dell'obbligo di riapertura del dibattimento ha condizionato la adeguatezza della motivazione che non giustifica il ribaltamento della decisione di primo grado

Terzo motivo, vizio di motivazione. La decisione è del tutto illogica in quanto non era in questione la gravità della dispnea ma il suo carattere acuto, di recente insorgenza, che giustificava l'accertamento urgente; la Corte di appello inizialmente svaluta gli argomenti del procuratore generale che negava che ci fosse dispnea acuta per poi smentirsi successivamente.

Non considera, poi, che in base a quanto accertato dal Tribunale la prima scheda risulta compilata da un infermiere.

Quanto alla finalità di non far pagare la prestazione, la Corte non tiene conto che il Tribunale ha accertato il diritto del paziente a non pagare.

Anche il contenuto delle telefonate intercettate era stato valutato dal giudice di primo grado che, d'accordo con le conclusioni del pubblico ministero, ne aveva ritenuto la irrilevanza ai fini della accusa.

Quarto motivo, violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza. Non è stata correttamente contestata la aggravante di cui all'art. 476 c.p., comma 2 per cui i reati sono prescritti.

3.4. Ricorso nell'interesse di M..

Primo motivo, violazione dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis. La decisione di riforma della sentenza di assoluzione è stata disposta senza procedere a nuova raccolta delle prove.

Secondo motivo, vizio di motivazione. La decisione è del tutto contraddittoria in quanto mentre a pagina 20 rileva la urgenza di verificare la presenza di dispnea e se ci fosse stenosi tracheale, cosa che avrebbe reso necessario un immediato intervento chirurgico, poi, successivamente, sostiene che tale patologia non vi fosse o non fosse così grave.

Inoltre, non considera elementi determinanti:

- la lettera di dimissioni era destinata al medico curante in Spagna e perciò non era presente nella cartella di accettazione ma solo nel supporto informatico;

- la Corte di appello si preoccupa di trovare una ragione del falso nell'intenzione di non fare pagare la prestazione laddove dalla sentenza di primo grado risulta che la moglie del paziente fu invitata a recarsi a pagare;

- l'esame fu breve perché il dottore ebbe modo di escludere recidive neoplastiche;

- la prima scheda annullata non fu occultata ma conservata insieme alla seconda;

- Il M. ha redatto la scheda di dimissioni con riferimento alla patologia e non alla sua qualificazione di urgente.

Con successivo atto ha contestato la violazione di legge per essere contestata una aggravante

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

1. Il ricorso del procuratore generale è inammissibile.

1.1. Va considerato innanzitutto se il ricorso sia stato presentato anche nei confronti di J. il quale ha eccepito la mancanza di impugnazione nei suoi confronti.

Al riguardo, si rileva che, pur essendo stato trasmesso il fascicolo dalla cancelleria della Corte di merito indicando il ricorso del P.G. quale proposto contro tutti gli imputati assolti, effettivamente nella intestazione dell'atto il nome di J.M.O. non è presente mentre, nelle conclusioni, l'ufficio ricorrente formula una richiesta in termini generali di annullamento della sentenza della Corte di appello senza specificare se nei confronti di tutti gli imputati o parte di essi. E', quindi, ragionevole il dubbio che l'impugnazione non sia stata proposta anche nei confronti di J.. In ogni caso, va ritenuto assorbente l'esito di inammissibilità totale del ricorso che rende superfluo ogni ulteriore indagine per accertare gli effettivi destinatari dell'impugnazione.

1.2. Il primo motivo nella prima parte, lì dove deduce la violazione di legge per la mancata riapertura del dibattimento ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 3 bis, è manifestamente infondato.

La interpretazione proposta dalla parte pubblica è nei termini che la disposizione citata introduca un diritto del pubblico ministero appellante alla riapertura del dibattimento con ripetizione delle prove orali per potere (meglio) provare la propria tesi; ciò è ben evidente sulla base degli argomenti svolti nel ricorso.

Tale lettura è erronea perché la disposizione, che codifica la precedente giurisprudenza in materia (per tutte Sez. U, Sentenza n. 27620 del 28/04/2016 rv. 267488), introduce un principio a favore della difesa e in nome della regola della assoluta certezza ("al di là di ogni ragionevole dubbio") per disporre la condanna: il giudice di appello deve procedere alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di tale prova.

1.3. Resta fermo, invece, il potere del giudice di confermare la assoluzione disposta in primo grado ritenendo superfluo ogni ulteriore accertamento probatorio perché non vi è un diritto alla riapertura del dibattimento "a prescindere" a favore della sola parte pubblica. Del resto, la norma, se interpretata come richiede l'ufficio ricorrente, sarebbe gravemente sbilanciata non prevedendo un corrispondente diritto pieno dell'imputato condannato alla ripetizione dell'istruttoria.

Ovviamente non è escluso che potesse esservi il diritto nel caso concreto alla riapertura del dibattimento a fronte della prospettazione di situazioni che la imponessero secondo le regole ordinarie di cui ai primi tre commi l'art. 603 c.p.p., ma il ricorso non deduce nulla al riguardo.

2. La seconda parte del motivo, con la esposizione degli "argomenti a sostegno dell'appello", è parimenti inammissibile. Che con questa premessa si intendesse richiamare gli argomenti dell'impugnazione di merito o se, per un lapsus calami, sia stato scritto "appello" anziché "ricorso", tale parte dell'impugnazione è palesemente mirata ad ottenere una nuova valutazione dei fatti che, però, non è consentita in sede di legittimità.

2.1. Non solo, difatti, la richiesta non è contenuta nei limiti del vizio di motivazione consentito in sede di legittimità ex art. 606 c.p.p., lett. e), ma va considerato che è applicabile la disposizione di cui all'art. 608 c.p.p., comma 1-bis la quale, nella ipotesi di "doppia conforme" di assoluzione, ammette il ricorso del pubblico ministero esclusivamente per violazione di legge, con esclusione, quindi, della deducibilità del vizio di motivazione.

3. Il secondo motivo è inammissibile in quanto non è correlato agli argomenti della sentenza impugnata e, quindi, viola le regole di specificità di cui all'art. 581 c.p.p..

La parte, difatti, non esamina la correttezza o meno degli argomenti delle due sentenze di merito e non coglie la ragione della loro decisione. Le ragioni del ricorso partono dal presupposto che il M. avesse operato su incarico della struttura sanitaria nonostante le sentenze abbiano affermato il contrario e, in ogni caso, non si preoccupa affatto di smentire tale ricostruzione.

4. I ricorsi di M., G. e M., condannati per i reati di falso, sono fondati.

4.1. Sono fondati innanzitutto i motivi che deducono la intervenuta prescrizione.

Ai fini del computo della prescrizione, va considerato che i fatti vanno qualificati ai sensi dell'art. 476 c.p., comma 1, dovendo essere esclusa la aggravante a effetto speciale di cui al comma 2 del medesimo articolo (natura fidefacente dell'atto).

4.2. Innanzitutto, va considerato che l'aggravante dell'essere falsificato un atto pubblico facente stato sino a querela di falso non è stata contestata formalmente.

Si premette il principio, ormai pacifico, secondo cui "non può ritenersi legittimamente contestata, sì che non può essere ritenuta in sentenza dal giudice, la fattispecie aggravata di cui all'art. 476 c.p., comma 2, qualora nel capo d'imputazione non sia esposta la natura fidefacente dell'atto, o direttamente, o mediante l'impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l'indicazione della relativa norma. (In applicazione del principio le Sezioni unite hanno escluso che la mera indicazione dell'atto, in relazione al quale la condotta di falso è contestata, sia sufficiente a tal fine in quanto l'attribuzione ad esso della qualità di documento fidefacente costituisce il risultato di una valutazione). Sez. U -, Sentenza n. 24906 del 18/04/2019, rv. 275436".

Nelle imputazioni di cui ai capi M e N manca, difatti, la contestazione espressa che invece per altri reati di falso nello stesso processo vi è stata (con indicazione dell'art. 476 c.p., comma 2 e il richiamo all'art. 2700 c.c.).

La generica affermazione della Corte che vi è stata una chiara contestazione in fatto "mediante la specificazione "fatti dei quali l'atto era destinato a provare la verità" è erronea facendo riferimento ad una caratteristica essenziale di qualsiasi atto pubblico, a fede privilegiata o semplice.

4.3. Oltre al dato formale della mancata contestazione, vi è il più significativo dato che non si è in presenza di atti fidefacenti (almeno per la parte che si assume falsificata).

La falsità, come detto, riguarderebbe la individuazione della patologia e la urgenza del suo trattamento.

Invero, è di palmare evidenza che non possa qualificarsi come "facente prova sino a querela di falso" ai sensi dell'art. 2700 c.c. la "valutazione" sulla patologia. Considerando che la fede privilegiata riguarda l'uso delle prove nei processi civili, amministrativi e tributari, se fosse vera la tesi della Corte di appello, si dovrebbe affermare che in un processo civile non sarebbe sindacabile la valutazione sulla correttezza della diagnosi se non previo esperimento della querela di falso.

Se quest'ultimo giudizio venisse proposto, poi, avrebbe ad oggetto la correttezza dell'attività medica, di fatto duplicando il processo originario.

4.4. Va quindi considerato quando l'atto abbia la caratteristica della fede privilegiata.

E' noto che la nozione di "atto pubblico" del diritto penale, in particolare dei reati di falso, è più ampia di quella dell'atto pubblico di cui all'art. 2699 c.c. (che lo definisce ai fini di introdurlo tra le "prove" civili), come dimostrato anche dalla semplice lettura comparativa con le varie ipotesi di falso in atti pubblici del codice penale.

Invece, per quanto riguarda l'ipotesi dell'art. 476 c.p., comma 2, l'inequivoco riferimento ai soli atti facenti fede sino a "querela di falso" del comma citato comporta che tali atti siano solo quelli disciplinati dall'art. 2700 c.c..

Si osserva, quindi, che l'art. 2699 c.c. individua la categoria generale dell'atto pubblico quale comunque dotato della caratteristica della "pubblica fede" e che, poi, l'art. 2700 c.c. individua il più particolare ambito in cui gli atti pubblici fanno "... piena prova, fino a querela di falso"; ovvero:

- la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato;

- le dichiarazioni delle parti che il pubblico ufficiale attesta di aver ricevuto (ovviamente il fatto che vi sia stata la dichiarazione e non certo l'esattezza di quanto gli sia stato riferito);

- gli "altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti".

Al di fuori di questi casi, ferma restante la natura di atto pubblico e della relativa presunzione di veridicità, non ricorre la condizione di "... prova, fino a querela di falso" e, quindi, l'ipotesi criminosa della norma citata.

Pertanto la distinzione non è certo nella semplice possibilità dell'atto di fare fede: questa, si ripete, è comunque caratteristica dell'atto pubblico ex art. 2699 c.c..

Ne consegue che la implicita affermazione dei giudici di merito quanto ad esservi una norma che attribuisce al pubblico ufficiale il potere di emettere l'atto fidefacente non risolve di per sé il tema del ricorrere della ipotesi dell'art. 476 c.p., comma 2; occorre anche che la falsità dell'atto investa il dato contenuto di cui all'art. 2700 c.c..

Del resto, il comma in questione non disciplina l'"atto" ma anche la "parte di atto" che fa prova sino a querela di falso. Ovvero, come si comprende dall'art. 2700 c.c., non è questione di categoria di atti ma del suo contenuto; quindi uno stesso atto falso può rientrare nel falso penale "semplice" o in quello "aggravato" a seconda di quale sia il contenuto falso.

4.5. La semplice lettura delle varie disposizioni del codice penale in tema di falsi in atto pubblico dimostra come sia ben chiara la distinzione tra la semplice attribuzione di "pubblica fede" e la fede privilegiata: ad esempio, nella ipotesi di cui all'art. 483 c.p., falso in certificati ed autorizzazioni amministrative, si fa riferimento alla attestazione di "fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità" e, quindi, è chiaro che la generale forza probatoria dell'atto pubblico non comporta che lo stesso debba rientrare per ciò solo nell'ambito dell'art. 476 c.p., comma 2.

4.6. In definitiva, non è sufficiente, perché ricorra il reato come qualificato, che l'atto sia formato "da un pubblico ufficiale nell'esercizio legittimo di una speciale funzione pubblica di attestazione, munita cioè di una particolare capacità probatoria rispetto ai fatti da lui compiuti o in sua presenza avvenuti" ma è anche necessario che la falsità investa fatti che il pubblico ufficiale riferisca "come visti, uditi o direttamente da lui compiuti" (Sez. 5, n. 2837 del 09/02/1983, Andronaco, Rv. 158265).

Degli esempi ben chiari per comprendere che solo determinati contenuti dell'atto hanno fede privilegiata e non basta, quindi fare riferimento ai poteri del soggetto che lo emette o alla tipologia dell'atto, si possono leggere in recenti decisioni della giurisprudenza civile "Gli accertamenti ispettivi condotti dalla banca d'Italia fanno piena prova ex art. 2700 c.c., fino a querela di falso, unicamente con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale nella relazione ispettiva come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti o conosciuti senza alcun margine di apprezzamento, nonché con riguardo alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti; la fede privilegiata di detti accertamenti non è , per converso, estesa agli apprezzamenti in essi contenuti, né ai fatti di cui i pubblici ufficiali hanno notizia da altre persone o a quelli che si assumono veri in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche; ne consegue che le valutazioni conclusive rese nelle relazioni ispettive costituiscono elementi di convincimento con i quali il giudice deve criticamente confrontarsi, non potendoli recepire aprioristicamente. Cass. civ., sez. I, 30-05-2018, n. 13679" e "L'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti o degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza, ma non prova la veridicità e l'esattezza delle dichiarazioni rese dalle parti, le quali possono essere contrastate ed accertate con tutti i mezzi di prova consentiti dalla legge, senza ricorrere alla querela di falso (nella specie la suprema corte ha escluso che l'attestazione, contenuta nell'atto notarile di compravendita, dell'avvenuto pagamento del prezzo nelle mani della parte venditrice contestualmente alla stipula, fosse dotata di fede privilegiata - e superabile, pertanto, solo con la proposizione di querela di falso - in difetto di indicazione, nel medesimo atto, della presenza del notaio al momento del pagamento, nonché delle modalità di sua esecuzione)." Cass. civ. (ord.), sez. II, 29-09-2017, n. 22903".

Quale notazione finale, si noti, del resto, che la previsione della pena edittale per il caso aggravato ex art. 476 c.p., comma 2, è estremamente più elevata in quanto riferita ad atti che, in sede processuale, inseriscono delle presunzioni che non sono superabili neanche con prova contraria, ma solo con separato giudizio (appunto, la "querela di falso"). Palese, si ripete, che una tale "forza" probatoria non spetti alla valutazione sommaria della presumibile patologia in sede di accettazione in ospedale.

5. Come noto, accertate le condizioni per dichiarare il reato estinto per prescrizione, l'art. 129 c.p.p. impone il proscioglimento immediato, salva la possibilità di assolvere nel merito lì dove ve ne siano le condizioni allo stato degli atti; con riferimento al giudizio di cassazione, significa che deve essere possibile disporre l'annullamento senza rinvio nel merito, essendo invece precluso l'annullamento con rinvio per l'eventuale assoluzione a seguito di nuovo processo.

Nel caso di specie, va esclusa la valutabilità dei profili relativi alla violazione della regola di riapertura del dibattimento ex art. 603 c.p.p., comma 3-bis e della assenza di una "motivazione rafforzata" essendo stata ribaltata una decisione di assoluzione in primo grado; tali motivi, difatti, comporterebbero la necessità di un nuovo giudizio.

5.1. Risulta, però, ictu oculi non solo che la sentenza impugnata presenta, per la decisione di condanna, una motivazione gravemente carente e contraddittoria (questione posta dai ricorrenti) ma anche che va esclusa la possibilità di giungere ad una conclusione diversa da quella di assoluzione cui era giunto il Tribunale.

Sono in particolare fondati i motivi terzo, quarto, quinto e sesto del ricorso M., il terzo del ricorso G. e il secondo del ricorso M. nella parte in cui segnalano vizi di motivazione carente, contraddittoria e non conseguente agli esiti dell'istruttoria dibattimentale riferita dalla stessa sentenza impugnata.

5.2. Come riportato, la Corte di appello ritiene che i ricorrenti si sarebbero impegnati a falsificare gli atti in questione per far risultare una inesistente urgenza degli interventi medici favore del paziente C. con la peculiare finalità di consentirgli il risparmio di circa 270 Euro di costo della prestazione che avrebbe dovuto pagare avendo dimenticato il documento che gli riconosceva la gratuità quale cittadino della unione Europea.

Il Tribunale, invero, era giunto alla conclusione della infondatezza dell'accusa con questi argomenti di sintesi:

- " C. era intestatario della "tarjeta sanitaria Europea" e la trasmise all'amministrazione su richiesta del 15 marzo 2011... la lettera di dimissioni (OMISSIS) non fu occultata, tanto che venne consegnata alla moglie di C. e archiviata nella memoria di un computer; la scheda di accettazione in pari data non fu scritta da G. e, pure a supporre una qualche forma di condizionamento di M. nei confronti di M.... si può pensare al prospettato eccesso di zelo da parte dell'infermiere... la prova dell'inesistenza della dispnea acuta è ancor più debole di quella dei casi presunti non urgenti esaminati sub 2, condividendosi poi, quanto alle telefonate sospette commentate in requisitoria... la valutazione del PM; C. aveva diritto all'assistenza sanitaria garantita ai cittadini dell'UE e quindi, comunque conclamata l'estraneità di J. il quale si limitò a eseguire la broncoscopia, si deve escludere la violazione contestata al capo O, osservandosi, per di più, che non solo M., in epoca non sospetta, si diceva in buona fede... ma anche C. e M. ne erano convinti".

5.3. A fronte di questa ricostruzione, secondo la quale la prima scheda di accettazione era stata redatta in modo erroneo tanto da essere formalmente annullata mentre la seconda riportava l'effettiva attività a praticarsi, la motivazione appare certamente alquanto confusa.

Innanzitutto, partendo dal dato essenziale di quale potesse essere la ragione di falsificare la diagnosi, la Corte non affronta direttamente le questioni in ordine a potere il C. fruire dell'assistenza sanitaria e, anzi, riconosce che "pacificamente il C. è soggetto facoltoso" e che su ciò poggiava la logica valutazione del primo giudice che un così minimo risparmio di spesa certamente non giustificava la articolata e rischiosa condotta degli imputati.

Tale rilevante dato fattuale, che incideva sulla ricostruzione del tutto indiziaria della presunta falsità della diagnosi che senza la finalità del risparmio era insostenibile, viene superato con una mera congettura: secondo la Corte di merito sarebbe "del tutto presumibile che il M. abbia ritenuto il cliente, proprio perché facoltoso e dunque importante, meritevole di massima attenzione, così volendo evitargli qualsivoglia minima incombenza, compreso quindi il pagamento della broncoscopia e ciò indipendentemente dallo specifico costo della prestazione".

A ciò la sentenza aggiunge che è inverosimile che C. non abbia mai pagato M. per le sue prestazioni e da tale ipotesi giunge ad affermare che diventa plausibile l'ulteriore passaggio che in tanto C. non avrebbe portato la tessera sanitaria in quanto convinto di avere già pagato. Affermazione che rafforza con la notazione che, anzi, la "mera dimenticanza" della tessera sarebbe "improbabilissima".

5.4. Questa lunga catena di congetture per giungere ad affermare che non sia, invece, altamente significativo in una ricostruzione indiziaria la assoluta assenza di un ragionevole movente (la scarsità del risparmio di spesa per un soggetto "facoltoso" che aveva intrapreso un viaggio in due dalla Spagna esclusivamente per le attività mediche, peraltro in grado di presentare anche ex post la documentazione per non pagare la prestazione, come era suo diritto) dimostra che, in realtà, la Corte di appello non aveva argomento alcuno per superare la valutazione del primo giudice: non vi era alcun interesse alla falsità della attestazione di "urgenza" (e, tra le righe, sembra riconoscere tale urgenza lì dove rappresenta che si trattava di un paziente con attuali disturbi respiratori, privo di un polmone e di un pezzo di trachea e con "il polmone residuo sinistro riattaccato alla parte finale della trachea", con sospetto di recidiva tumorale).

5.5. La stessa ricostruzione della presunta falsità delle diagnosi (quanto alla "urgenza") è contraddittoria e formulata genericamente.

- La sentenza a pagina 19 afferma che "... C. è stato sottoposto a broncoscopia cd. flessibile" e, dopo vari argomenti, alla pagina successiva conclude che "In presenza di dispnea, era urgente verificare se ci fosse stenosi tracheale, perché in quel caso sarebbe stato necessario un immediato intervento chirurgico". Quindi questa prima parte della sentenza non dubita che l'attività fosse urgente e, anzi, supera l'argomento del procuratore generale appellante (evidentemente congetturale) che appariva improbabile che il paziente si fosse imbarcato in aereo da (OMISSIS) a Firenze nonostante tale dispnea acuta. La Corte di appello smentiva agevolmente questo argomento: proprio perché C. rischiava di essere sottoposto ad una operazione chirurgica immediata, aveva tutto l'interesse a mettersi nelle mani del M. che risulta un professionista assai qualificato e al quale, del resto, il C. si era affidato per la soluzione chirurgica della sua patologia tumorale.

- A fronte di questo argomento che di per sé solo era esiziale rispetto alla idea della falsità dei documenti per occultare una urgenza inesistente, la Corte nelle pagine successive passa a sostenere una tesi diametralmente opposta, ovvero che "pare essersi trattato, piuttosto, di un controllo periodico, o meglio soltanto prudenziale".

- Tali diversi argomenti, invero, oltre alla radicale contraddizione con la diversa versione affermata nella stessa sentenza, non poggiano su alcun elemento concreto (e, soprattutto, sono improbabili per l'assenza di qualsiasi ragionevole movente per falsificare gli atti) non essendo indicato alcun reale dato fattuale. Non era certo sufficiente dare atto che un soggetto reduce da chirurgia oncologica facesse anche controlli di routine che non escludono una particolare urgenza (appunto, si segnavalano difficoltà respiratorie).

- Peraltro, mentre in qualche modo la sentenza riporta la redazione degli atti a G. e M., si attribuisce un ruolo di istigazione al M. solo in via "logica" senza indicare alcun elemento concreto, anche in questo caso risultando la conclusione raggiunta meramente congetturale.

- In definitiva, a fronte di una decisione in primo grado che sulla base dei medesimi atti rilevava come nulla escludesse la correttezza della diagnosi di "urgenza" riportata nelle schede di accettazione e che non fu "occultata" la scheda di dimissione, ostandovi anche la inconsistenza dell'ipotetico movente (il risparmio di spesa del tutto irrilevante nel contesto complessivo), la Corte di appello offre due motivazioni, la prima di conferma della ricostruzione del Tribunale e la seconda, del tutto contraddittoria rispetto alla prima, di acritica adesione alla tesi di accusa senza elementi concreti e sulla scorta una ricostruzione illogica e congetturale del movente per procedere ad una rischiosa attività di alterazione degli atti del ricovero.

6. Quindi i motivi sulla assoluta carenza della motivazione di condanna sono fondati ed è palese la impossibilità di giungere anche in sede di giudizio di rinvio a una diversa ricostruzione dei fatti. La Corte ha dimostrato che non vi è alcun plausibile movente per falsificare gli atti in questione, dovendo ricorrere a congetture poco plausibili rispetto ad una logica ricostruzione del Tribunale sulla insussistenza della ragione "economica", e che non è possibile smentire le condizioni mediche che giustificano l'urgenza, tanto da giungere a riconoscerla nella prima parte della decisione per poi dire il contrario sulla scorta di vaghi indizi.

Si impone, quindi, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con la assoluzione con la medesima formula già adottata dal primo giudice.

 

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di M.P., G.A. e M.F., in relazione ai capi m) ed n) perché il fatto non sussiste. Dichiara inammissibile il ricorso del P.G..