Giu Corruzione propria per atti discrezionali della p.a.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 01 ottobre 2021 N. 35927
Massima
Ai fini dell'integrazione del reato di corruzione propria non è sufficiente l'adozione di un atto discrezionale a fronte di una indebita utilità promessa/percepita del pubblico agente, dovendo essere accertato se l'interesse perseguito in concreto sia sussumibile nell'interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere ovvero se quest'ultimo sia stato limitato, condizionato, inquinato dalla esigenza di soddisfare gli interessi privati posti a carico dell'accordo corruttivo.

Casus Decisus
La Corte di appello di Napoli confermava la sentenza con cui un sindaco era stato condannato per il reato di corruzione propria in concorso con il dirigente dell’ufficio tecnico per aver ricevuto denaro ed altre utilità dal titolare di una società in cambio dell'assegnazione in via temporanea e diretta, per il periodo di sei mesi, del servizio di raccolta, trasporto e spezzamento dei rifiuti del Comune a tale società e poi ad altra società subentrata alla prima, nonostante la società non avesse i requisiti necessari e che per l'affidamento fosse stato previsto un canone mensile superiore rispetto a quello versato dalla impresa a cui in precedenza era stato assegnato il medesimo servizio. Pertanto, gli imputati proponevano ricorso in cassazione, denunciando, tra gli altri motivi, vizio di motivazione quanto alla corretta qualificazione giuridica del fatto, che invece avrebbe dovuto essere ricondotto alla fattispecie di corruzione impropria; si sarebbe trattato di un atto discrezionale, quello compiuto dall'imputata, uguale a quello che sarebbe stato adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni.

Annotazione
Nella sentenza in epigrafe la Suprema Corte chiarisce quando può configurarsi il reato di corruzione propria e la distinzione rispetto a quella impropria. Entrambe le fattispecie criminose previste dagli artt. 318 - 319 c.p. , che puniscono il collateralismo clientelare o mercantile, descrivono il perfezionamento di una pattuizione tra un privato e un soggetto qualificato, il cui oggetto tuttavia deve essere accertato. Concluso l'accordo, il reato è perfezionato e non assume rilievo decisivo la sua esecuzione; è l'accordo che si punisce, anche se intervenuto successivamente all'adozione dell'atto- legittimo o illegittimo che sia - ovvero all'esercizio della funzione. Ciò che accomuna le due fattispecie è il divieto di "presa in carico" d'interessi differenti da quelli che la legge persegue attraverso il pubblico agente; nella corruzione propria detta presa in carico riguarda e si manifesta con il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio. Più precisamente, deve essere accertato il "colore" del patto corruttivo, il suo oggetto specifico, la sua riferibilità o meno al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio; se il contenuto del patto non attiene al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio, la condotta è riconducibile all'art. 318 c.p. Le considerazioni esposte assumono una maggiore complessità in tutti i casi in cui oggetto del mercimonio sia l'attività amministrativa discrezionale, cioè un'attività in cui la norma attributiva del potere consente all'amministrazione un ampio ambito di possibilità di azione. In tal caso non è l'atto discrezionale a dover essere sindacato dal giudice penale ai fini della verifica della sussistenza del reato di corruzione propria, ma una condotta umana, e cioè come il pubblico ufficiale si sia posto rispetto alla funzione pubblica di cui è titolare e cosa abbia fatto in concreto per "giungere" all'atto. Il giudice deve verificare la corrispondenza fra fatto storico e previsione normativa: deve stabilire se sia stata o meno realizzata una condotta abusiva, arbitraria, contraria a ciò che i doveri di ufficio imponevano di fare. Ciò che deve essere rivisto è il "presupposto, di tipo "presuntivo-psicologico", secondo cui una volta concluso l'accordo corruttivo, "il successivo (futuro e incerto) esercizio del potere pubblico non potrà non essere inquinato, contaminato dall'interesse privato veicolato dell'intesa illecita". In realtà, al di là delle infedeltà in quanto tali del pubblico ufficiale, ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria rileva la violazione dei doveri che attengono al modo, al contenuto, ai tempi degli atti da compiere e delle decisioni da adottare, alla violazione, cioè, della regola "giusta" nel concreto operare della discrezionalità amministrativa. È necessario fare riferimento alle regole sottese all'esercizio dell'attività discrezionale e si tratta di verificare se l'interesse pubblico sia stato valutato e, posto che sia stato valutato, se sia stato condizionato dalla "presa in carico" dell'interesse del privato corruttore; nel caso in cui l'interesse pubblico non sia stato condizionato, il fatto integrerà la fattispecie di cui all'art. 318 c.p. Quindi, quello che deve essere verificato è se l'interesse perseguito in concreto sia sussumibile nell'interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, se questo sia stato soddisfatto, ovvero se esso sia stato limitato, condizionato, inquinato dalla esigenza di soddisfare gli interessi privati posti a carico con l'accordo corruttivo. In definitiva, l'esistenza di un potere discrezionale non basta a far ritenere integrata la fattispecie di corruzione propria che invece sussiste solo ove sia dimostrata la violazione di una delle regole sull'esercizio del corrispondente potere.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 01 ottobre 2021 N. 35927 Pres. Fidelbo – est. Silvestri

Ritenuto in fatto

 

1. La Corte di appello di Napoli ha sostanzialmente confermato la sentenza con cui M.A. e T.M.C. sono state condannate rispettivamente per i reati di turbata libertà degli incanti e corruzione propria (capi A e C) e per il reato di corruzione propria (Capo E).

In particolare, quanto al capo E), G.A., gestore della società Ecosystem 2000 s.r.l., avrebbe corrisposto a R.S., dirigente dell'Ufficio tecnico del Comune di (omissis) e responsabile unico del procedimento, ed a T.M.C., Sindaco del Comune in questione, denaro ed altre utilità - consistenti nell'assunzione di Gr.Ro. e di C.G. e nella dazione della somma di 1000 Euro a titolo di contributo per la pro loco del comune - in ragione dell'assegnazione in via temporanea e diretta, per il periodo di sei mesi, del servizio di raccolta, trasporto e spezzamento dei rifiuti del Comune alla società Ecosystem 2000 e poi a quella denominata Fare L'Ambiente - subentrata alla prima- nonostante la società non avesse i requisiti necessari e che per l'affidamento fosse stato previsto un canone mensile superiore rispetto a quello versato dalla impresa a cui in precedenza era stato assegnato il medesimo servizio.

2. Hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di T.M.C. articolando quattro motivi.

2.1. Con il primo si lamenta violazione di legge.

Il tema attiene all'adozione della ordinanza contingibile ed urgente, ex art. 54 T.U.E.L., con cui fu assegnato in via diretta alla s.r.l. Ecosystem il servizio di raccolta dei rifiuti per il periodo 21 luglio/31 dicembre 2012; detto atto, secondo i Giudici di merito, sarebbe stato contrario ai doveri d'ufficio, atteso che si sarebbe dovuto procedere con una gara di appalto.

Secondo la ricorrente, la Corte non avrebbe invece tenuto conto che tra la società Smaltimenti Sud s.r.l. di […], cioè la società a cui era stata assegnato l'appalto tra il 2007 ed il 2012, ed il Comune era stato stipulato un accordo transattivo con cui il fornitore aveva manifestato la disponibilità a prorogare il proprio impegno anche dopo la scadenza del termine e tale possibilità era stata valutata positivamente dal Comune che, tuttavia, solo il 19.6.2012, cioè un mese prima della scadenza del contratto, ricevette dalla società in questione la comunicazione di indisponibilità a continuare la fornitura del servizio.

Sarebbe dunque viziato l'assunto della Corte di appello secondo cui proprio tale elemento, cioè la improvvisa manifestazione di indisponibilità a proseguire il servizio, sarebbe confermativo della necessità che la gara fosse tempestivamente indetta, laddove, invece - argomentano i difensori- detta diffida avrebbe costituto l'ultimo tentativo da parte dell'imprenditore di "forzare la mano" al Comune per ottenere il rispetto di accordi transattivi intercorsi.

Nè, si aggiunge, sarebbe rilevante la circostanza che il successivo affidamento del servizio in via temporanea fu disposto per un importo superiore a quello affidato alla società Smaltimenti Sud, in quanto vi era stato un incremento del prezzo dei carburanti e, comunque, per effetto dell'affidamento, il Comune risparmiò una rilevante somma.

L'ordinanza adottata dalla Sindaca sarebbe stata conforme ai doveri d'ufficio perché fu adottata al fine di sopperire alla esigenza della collettività e di non interrompere il servizio urbano nel periodo; si trattò di un provvedimento in relazione al quale non fu eccepito nulla da nessuno e che non poteva che avere la Ecosystem come destinat. a, atteso che detta società era l'unica in grado di praticare prezzi ridottissimi in considerazione della economia di scala, derivante dall'assegnazione alla stessa società di analogo servizio in altri comuni del territorio casertano.

Sotto ulteriore profilo si deduce violazione di legge anche quanto all'utilità conseguita dal pubblico ufficiale, consistita solo nella sperabile fidelizzazione elettorale da parte dell'imputata dei due soggetti e dei loro familiari assunti.

L'assunto difensivo è che l'utilità mediata sarebbe stata affermata senza accertare se effettivamente l'ottenimento del posto di lavoro fu subordinato al sostegno elettorale.

2.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione quanto alla corretta qualificazione giuridica del fatto, che invece avrebbe dovuto essere ricondotto alla fattispecie di corruzione impropria; si sarebbe trattato di un atto discrezionale, quello compiuto dall'imputata, uguale a quello che sarebbe stato adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni.

Sarebbe stato in particolare provato come, nel caso di specie, l'importo proposto al Comune da Ecosystem fosse sotto soglia e nessun'altra impresa avrebbe potuto garantire il servizio a quei prezzi.

2.3. Con il terzo motivo si lamenta vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuante prevista dall'art. 323 bis c.p..

2.4. Con il quarto si deduce vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità, formulato dalla Corte senza valutare le censure e le argomentazioni contenute nell'atto di appello, che sarebbero state non considerate o alterate nella loro portata dimostrativa.

Il riferimento è all'indimostrato assunto secondo cui gli incontri avvenuti all'inizio del 2012 tra G. e T. avessero ad oggetto una trattativa privata riguardante l'appalto del servizio come corrispettivo dell'assunzione di Gr.Ro. e C.G..

La Corte non avrebbe valutato adeguatamente alcune testimonianze (P., Ca. , S.L. ) e invece avrebbe travisato il contenuto di una telefonata di auguri tra G. e l'imputata avvenuta in occasione del Natale; nè, ancora, sarebbe stato considerato che la Sindaca avesse cercato di affidare nuovamente alla stessa ditta Smaltimenti il servizio (il tema è quello di ci si è detto).

3. Ha proposto ricorso per cassazione M.a., che ha concordato la pena in appello, deducendo un unico motivo con cui lamenta violazione di legge in ordine alla mancata verifica della causa di non punibilità ex art. 129 c.p.p..

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso presentato nell'interesse di M.A. è inammissibile.

Il ricorso di T.M.C. è invece infondato e la sentenza deve essere annullata

senza rinvio ai fini penali per essersi il reato estinto per prescrizione.

2. Quanto al ricorso presentato nell'interesse di T.M.C., il quarto motivo, che deve essere valutato in via pregiudiziale, è inammissibile.

2.1. La Corte di appello, richiamando anche la sentenza di primo grado, ha adeguatamente valutato le prove e ricostruito i fatti.

Si è chiarito, soprattutto sulla base delle dichiarazioni di F.A. e M.A. - entrambe collaboratrici di G.A. - nonché del coimputato B.E. che:

- nella primavera del 2012 F., accompagnata da B., incontrò il Sindaco T. e tale incontro fu finalizzato a consentire ad una impresa riconducibile allo stesso G. di ottenere il servizio di raccolta dei rifiuti urbani;

- l'impresa riconducibile a G. non aveva i necessari requisiti per l'affidamento dell'appalto, in quanto non in regola nei versamenti contributivi, previdenziali e nel pagamento delle tasse;

- il servizio fu affidato ad un prezzo più alto rispetto a quello pagato dalla precedente aggiudicat. a;

- G. assunse due persone su segnalazione del Sindaco T..

Si è spiegato, in particolare, il senso degli incontri avuti personalmente dall'imputata con G. presso gli uffici della Cesap ed il nesso di correlazione tra l'assegnazione del servizio alla società di G. e le assunzioni richieste dal Sindaco (cfr. sentenza del Tribunale, pag. 115- 116- in relazione alle dichiarazioni rese da F.A. -; pag. 120-121 - in relazione alle dichiarazioni di M.A. ; pagg. 122 e ss. - in relazione alle dichiarazioni di B.E. ; pagg. 128 e ss. in relazione alle dichiarazioni della stessa Gr.Ro. , assunta "in nero").

Si tratta di elementi di prova chiarissimi, correttamente valutati dai Giudici di merito, avallati, ove ve ne fosse stato bisogno, dal contenuto delle conversazioni intercettate e dalle acquisizioni documentali relative alle irregolarità della società cui fu affidato il servizio, puntualmente indicate dal Tribunale e richiamate dalla Corte di appello.

Rispetto a tale articolato quadro di riferimento il primo ed il quarto motivo di ricorso rivelano la loro infondatezza strutturale, al limite della inammissibilità, non essendo stato dedotto alcunché sul perché: a) le molteplici dichiarazioni accusatorie sarebbero inattendibili; b) le dichiarazioni in questione non sarebbero obiettivamente confermate dai numerosi ulteriori elementi di prova.

Sui decisivi punti in questione il ricorso è del tutto silente.

Nè è chiaro perché avrebbero una valenza disarticolante del ragionamento probatorio dei Giudici di merito le testimonianze indicate dalla ricorrente, peraltro esaminate dal Tribunale, alle quali è stata correttamente attribuita una limitatissima capacità dimostrativa.

L'obbligo di motivazione del giudice dell'impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell'atto d'impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicché, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell'appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), (Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Cammi, RV. 277593; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260841)

Nel caso in esame, le argomentazioni svolte dal giudice di appello, anche mediante richiamo alle motivazioni della sentenza di primo grado, integrano un'implicita valutazione negativa delle opposte osservazioni e deduzioni contenute nell'atto di appello, con conseguente insussistenza del denunciato vizio di mancanza di motivazione.

2.2. Alla luce della ricostruzione fattuale compiuta dai Giudici di merito, di cui si è detto, sono infondati il primo ed il secondo motivo di ricorso.

Entrambe le fattispecie criminose previste dagli artt. 318 - 319 c.p. descrivono il perfezionamento di una pattuizione tra un privato e un soggetto qualificato, il cui oggetto tuttavia deve essere accertato.

Concluso l'accordo, il reato è perfezionato e non assume rilievo decisivo la sua esecuzione; è l'accordo che si punisce, anche se intervenuto successivamente all'adozione dell'atto- legittimo o illegittimo che sia - ovvero all'esercizio della funzione.

Ciò che accomuna le due fattispecie è il divieto di "presa in carico" d'interessi differenti da quelli che la legge persegue attraverso il pubblico agente; nella corruzione propria detta presa in carico riguarda e si manifesta con il compimento di un atto contrario

I delitti di corruzione puniscono il collateralismo clientelare o mercantile.

2.2.1. Il tema si incrocia con l'accertamento probatorio dei fatti, ed, in particolare, con il senso e la natura dell'accordo.

È possibile che il patto corruttivo sia solo apparentemente muto, ma in realtà il suo oggetto sia ricostruibile nel senso che l'impegno da parte del pubblico ufficiale sia quello di compiere uno o più specifici atti contrari ai doveri d'ufficio; non importa che l'atto specifico sia successivamente compiuto, quanto, piuttosto, la esatta ricostruzione del contenuto del programma obbligatorio che il pubblico ufficiale assume.

Si tratta di un accertamento che, sotto il profilo probatorio, deve essere compiuto caso per caso: potranno assumere rilievo la situazione concreta, le aspettative specifiche del corruttore- cioè il movente della condotta del corruttore il senso ed il tempo della pretesa di questi, la condotta in concreto compiuta dal pubblico agente, le modalità della corresponsione del prezzo.

Deve essere accertato il "colore" del patto corruttivo, il suo oggetto specifico, la sua riferibilità o meno al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio; se il contenuto del patto non attiene al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio, la condotta è riconducibile all'art. 318 c.p..

Le considerazioni esposte assumono una maggiore complessità in tutti i casi in cui oggetto del mercimonio sia l'attività amministrativa discrezionale, cioè un'attività in cui la norma attributiva del potere consente all'amministrazione un ampio ambito di possibilità di azione.

2.2.2. Il tema del rapporto tra esercizio della discrezionalità amministrativa e corruzione involge l'interpretazione del sintagma "atto contrario ai doveri d'ufficio", di cui all'art. 319 c.p. ed assume una sua rilevanza problematica perché non tutte le regole che presiedono all'esercizio della funzione amministrativa discrezionale hanno lo stesso grado di precettività.

Nella giurisprudenza della Corte di cassazione è diffusa l'affermazione secondo cui, ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 319 c.p., sono contrari ai doveri d'ufficio non solo gli atti illeciti o illegittimi perché assunti in violazione di norme giuridiche, riguardanti la loro validità ed efficacia", ma anche quelli che, "pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, dall'osservanza dei doveri istituzionali, espressi in norme di qualsiasi livello, compresi quelli di correttezza e di imparzialità (Sez. 6, n. 46492 del 15/09/2017, Argenziano, Rv. 271383; Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269347; Sez. 6, n. 29267 del 05/04/2018, Baccari, Rv. 273448).

La "sudditanza" del pubblico ufficiale al corruttore si tradurrebbe comunque in atti che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati nell'an, nel quando o nel quomodo, si conformano all'obiettivo di realizzare l'interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionale (Sez. 6, n. 29267 del 05/04/2018, cit.).

In altri termini, anche se ogni singolo atto, di per sé considerato, corrisponda ai presupposti normativi - come nel caso in cui il funzionario si adoperi al solo fine di velocizzare la definizione di un procedimento senza tuttavia inficiarne l'esito -l'inquinamento "alla base" della funzione imporrebbe di ritenere integrato il reato di corruzione propria.

In tal senso si è ritenuto integrare il reato di cui all'art. 319 c.p. il comportamento del dipendente comunale addetto a istruire pratiche relative a gare d'appalto, che abbia percepito da un privato denaro o altre utilità al fine di "velocizzare" la liquidazione di fatture nell'interesse di quest'ultimo, poiché "l'accettazione di una indebita retribuzione, pur se riferita ad un atto legittimo, configura comunque una violazione del principio d'imparzialità" (Sez. 6, n. 22707 del 11/04/2014, Lo Cricchio, Rv. 260275; nello stesso sembra porsi, Sez. 6, n. 33032 del 24/05/2018, Mancuso, non massimata).

Una soluzione interpretativa sovrapponibile ai casi, tuttavia obiettivamente diversi, in cui il funzionario non si limiti ad accelerare la definizione delle pratiche cui è interessato il corruttore ma per fare ciò faccia anche "altro", come ad esempio, inverta l'ordine di trattazione delle pratiche, così violando il D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 13, che impone al pubblico impiegato di trattare gli affari attribuiti alla sua competenza "tempestivamente e secondo l'ordine cronologico" (Sez. 6, n. 1777 del 21/11/2005, Abeysundera, Rv. 233114).

Ed invece, l'accettazione del compenso di per sé farebbe perdere al funzionario l'imparzialità fondamentale per l'esercizio del potere discrezionale: per il solo fatto di avere accettato una retribuzione, il pubblico ufficiale agirebbe in modo contrario ai suoi doveri d'ufficio, non orientando le proprie scelte verso l'interesse pubblico.

Astrattamente, la giurisprudenza sottolinea che, a fronte dell'esercizio di un potere discrezionale, gli estremi della corruzione propria ricorrono solo nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia accettato dietro compenso di non esercitare la discrezionalità che gli è stata attribuita dall'ordinamento oppure di usare tale discrezionalità in modo distorto, alterandone consapevolmente i fondamentali canoni di esercizio e ponendo perciò in essere una attività contraria ai suoi doveri di ufficio.

Detta affermazione, tuttavia, viene collegata al principio secondo cui "integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali spettantigli rinunciando a una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, ex post, con l'interesse pubblico", e questo perché, "ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l'elemento decisivo è costituito dalla “vendita” della discrezionalità accordata dalla legge" (Sez. 6, n. 5577 del 03/02/2016, Maggiore RV. 267187, in fattispecie in cui l'indagato, in qualità di Presidente della Commissione medica di verifica presso il ministero dell'economia e delle finanze, aveva ricevuto somme di denaro da un medico legale per far ottenere benefici pensionistici ai suoi pazienti. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto irrilevante, per escludere il reato, la circostanza che, trattandosi di persone affette da gravi patologie, sarebbero stati comunque riconosciuti loro i benefici richiesti; nello stesso senso, Sez. 6, n. 4454 del 24/11/2016, dep. 2017, Fiorani, RV. 269613, Sez. 6, n. 7903 del 17/01/2018, Morace, non massimata)

2.2.3. Si tratta di una interpretazione che deve essere esplicitata.

 

La questione non coincide con il tema del se la corruzione propria sia configurabile solo in presenza di un atto amministrativo illegittimo e, dunque, se il giudice penale debba compiere un sindacato sull'atto sovrapponibile a quello che compie il giudice amministrativo.

L'atto amministrativo non costituisce un presupposto del reato, ma è lo strumento di cui l'agente si serve per commettere il reato; l'atto viene in considerazione al fine della verifica del comportamento, della condotta che integra il reato.

Come sostenuto da autorevolissima dottrina" l'atto amministrativo viene "retrocesso a fatto"; non è l'atto a dover essere sindacato dal giudice penale ai fini della verifica della sussistenza del reato di corruzione propria, ma una condotta umana, e cioè come il pubblico ufficiale si sia posto rispetto alla funzione pubblica di cui è titolare e cosa abbia fatto in concreto per "giungere" all'atto.

Il giudice, si sostiene in maniera condivisibile, deve verificare la corrispondenza fra fatto storico e previsione normativa: deve stabilire se sia stata o meno realizzata una condotta abusiva, arbitraria, contraria a ciò che i doveri di ufficio imponevano di fare.

La legittimità dell'atto, della quale il giudice deve tenere eventualmente conto, serve solo perché "essa può concorrere a consentirgli di stabilire se si sia realizzata, o meno, una condotta abusiva o arbitraria".

Ciò che deve essere rivisto è il "presupposto, di tipo "presuntivo-psicologico", secondo cui una volta concluso l'accordo corruttivo, "il successivo (futuro e incerto) esercizio del potere pubblico non potrà non essere inquinato, contaminato dall'interesse privato veicolato dell'intesa illecita"; si finisce per centrare il disvalore della fattispecie sul patto criminoso e per spostare l'antigiuridicità del comportamento del funzionario dai profili relativi alla condotta (la non conformità ai doveri di ufficio) a quelli che riflettono maggiormente l'elemento psicologico del reato (il dolo insito nell'accettazione del denaro o della sua promessa).

In realtà, al di là delle infedeltà in quanto tali del pubblico ufficiale, ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria rileva la violazione dei doveri che attengono al modo, al contenuto, ai tempi degli atti da compiere e delle decisioni da adottare, alla violazione, cioè, della regola "giusta" nel concreto operare della discrezionalità amministrativa.

È necessario fare riferimento alle regole sottese all'esercizio dell'attività discrezionale e si tratta di verificare se l'interesse pubblico sia stato valutato e, posto che sia stato valutato, se sia stato condizionato dalla "presa in carico" dell'interesse del privato corruttore; nel caso in cui l'interesse pubblico non sia stato condizionato, il fatto integrerà la fattispecie di cui all'art. 318 c.p..

Quello che deve essere verificato, cioè, è se l'interesse perseguito in concreto sia sussumibile nell'interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, se questo sia stato soddisfatto, ovvero se esso sia stato limitato, condizionato, inquinato dalla esigenza di soddisfare gli interessi privati posti a carico con l'accordo corruttivo.

È possibile che l'atto discrezionale, nonostante l'accordo corruttivo, realizzi l'interesse pubblico e che il comportamento del pubblico ufficiale non abbia violato nessun dovere specifico.

L'atto discrezionale ed il comportamento sottostante sono contrari ai doveri di ufficio nei casi in cui "siano state violate le regole sull'esercizio del potere discrezionale o ne siano stati consapevolmente alterati i fondamentali canoni di esercizio in vantaggio del corruttore".

L'esistenza di un potere discrezionale non basta a far ritenere integrata la fattispecie di corruzione propria che invece sussiste solo ove sia dimostrata la violazione di una delle regole sull'esercizio del corrispondente potere.

È necessario esaminare la struttura del patto corruttivo, da una parte, per accertare se sia o meno identificabile "a monte" un atto contrario ai doveri di ufficio, e, dall'altro, per verificare la condotta del pubblico agente nei settori che interferiscono con gli interessi del corruttore, per comprendere se il predetto funzionario, al di là del caso di manifeste violazioni di discipline cogenti, di elusione della causa fondativa del potere attribuito, abbia, in conseguenza del patto, fatto o meno buon governo del potere assegnatogli, tenendo conto di tutti i profili valutabili, o se abbia pregiudizialmente inteso realizzare l'interesse del privato corruttore, a fronte di ragionevolmente possibili esiti diversi.

Anche in tal caso il profilo giuridico interferisce con quello processuale di accertamento probatorio dei fatti e assumerà rilevante valenza l'interpretazione dell'oggetto del patto corruttivo; è possibile, come in precedenza detto, che un privato si rivolga ad un funzionario non per esserne pregiudizialmente favorito ma per assicurarsi che la valutazione non sia condizionata da pregiudizi in suo danno o da indebite interferenze altrui, ipotesi nelle quali non potrà prospettarsi a priori alcuna violazione dei doveri diversa da quella inerente all'indebita ricezione di un'utilità non dovuta (in tal senso, la Corte di cassazione in passato si era in passato già espressa, Sez. 6, n. 9927 del 10/07/1995, Caliciuri, RV. 202877; Sez. 6, n. 11462 del 12/06/1997, Albini, Rv. 209699; Sez. 6, n. 1319 del 28/11/1997, Gilardino, Rv. 210442; Sez. 6, n. 3945 del 15/02/1999, Di Pinto, Rv. 213885).

In conclusione, se la pregiudiziale accertata rinuncia all'esercizio genuino della discrezionalità conduce all'adozione di atti contrari ai doveri di ufficio, non può dirsi il contrario, e cioè che sia configurabile la corruzione propria per il solo fatto che il pubblico ufficiale abbia ricevuto denaro in ragione del compimento della sua attività, anche discrezionale (così testualmente, Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555, cui si rinvia per ulteriori considerazioni).

2.2.4. La Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei principi indicati.

L'imputata, rinunciando ad ogni valutazione comparativa ed eludendo la causa fondativa del potere conferito, attribuì il servizio di reclutamento dei rifiuti ad una società che non aveva i requisiti, riconoscendole condizioni contrattuali più vantaggiose rispetto a quelle riconosciute alla precedente impresa; in cambio di tale comportamento contrario ai doveri di ufficio, l'imputata ricevette l'assunzione di due persone a lei gradite (sul punto ampiamente pagg. 195 e ss. sentenza Tribunale).

Anche sui decisivi profili indicati, il ricorso è sostanzialmente silente.

Nè sussistono dubbi sulla configurabilità nella specie di una utilità che il pubblico agente trasse dal patto corruttivo, avendo la Corte di cassazione in più occasioni spiegato come la nozione di "altra utilità", quale oggetto della dazione o promessa, ricomprenda qualsiasi vantaggio patrimoniale o non patrimoniale, che abbia valore per il pubblico agente o per un terzo, ivi compresi i benefici leciti, che nondimeno assumono rilevanza penale nel caso in cui s'inseriscano in una relazione sinallagmatica di tipo finalistico-strumentale o causale rispetto all'esercizio dei poteri o della funzione ovvero al compimento dell'atto contrario ai doveri d'ufficio (Sez. 6, n. 51765 del 13/07/2018, Ozzimo, Rv. 277562, Sez. 6, n. 10084 del 8/01/2021, Lacchini).

2.3. È infondato il terzo motivo, avendo con sufficiente motivazione la Corte di appello negato l'invocata circostanza attenuante in ragione della gravità dei fatti, enunciati sul piano descrittivo in precedenza, anche alla luce delle considerazioni compiute dal Tribunale.

2.4. Dalla infondatezza del ricorso consegue che la sentenza deve essere annullata senza rinvio ai fini penali, essendosi il reato estinto per prescrizione al più tardi nell'ottobre del 2020, mentre devono essere confermate le statuizioni civili.

L'imputata deve dunque essere condannata alla rifusione delle spese di rappresentanza e giudizio sostenute dalla parte civile nel presente grado che si liquidano in complessivi 3.600,00 Euro oltre accessori come per legge.

3. È invece inammissibile il ricorso proposto nell'interesse di M.A. avendo la Corte di cassazione già chiarito in numerose occasioni che in tema di concordato in appello, è ammissibile il ricorso in cassazione avverso la sentenza emessa ex art. 599 bis c.p.p. che deduca motivi relativi alla formazione della volontà della parte di accedere al concordato in appello, al consenso del Procuratore generale sulla richiesta ed al contenuto difforme della pronuncia del giudice, mentre sono inammissibili le doglianze relative a motivi rinunciati o alla mancata valutazione delle condizioni di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. (cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 30990 del 01/06/2018, Gueli, Rv. 272969).

Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso di M.A. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di T.M.C. perché il reato è estinto per prescrizione, confermando le statuizioni civili.

Condanna T.M.C. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, che liquida in complessivi Euro 3.600,00, oltre accessori di legge.

 

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