Giu Inottemperanza al giudicato: inerzia e parziale adempimento
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. II - SENTENZA 22 maggio 2023 N. 5072
Massima
L’inottemperanza al giudicato sussiste non solo in caso di totale inerzia della p.a. ma anche quando quest’ultima tenga comportamenti parzialmente esecutivi del giudicato, ovvero solo formalmente tali, che ne costituiscono nella sostanza un’elusione, piuttosto che una violazione; pertanto, deve ritenersi inottemperante il comune che, dopo essere rimasto inerte per anni, riavvia da capo l’istruttoria di un procedimento, senza tenere conto né delle precedenti produzioni documentali, né delle risultanze processuali.

Testo della sentenza
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. II - SENTENZA 22 maggio 2023 N. 5072

Pubblicato il 22/05/2023

N. 05072/2023REG.PROV.COLL.

N. 08506/2022 REG.RIC.

Immagine che contiene schizzo, disegno, emblema, arte Descrizione generata automaticamenteREPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8506 del 2022, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Sanino e Fabrizio Viola, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia,

contro

il Comune di Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Luigi D’Ottavi, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via del Tempio di Giove, n. 21,

per l’ottemperanza

della sentenza del Consiglio di Stato, sez. II, 9 giugno 2020, n. 3667, resa tra le parti, avente ad oggetto il diniego di condono per cambio di destinazione d’uso e gli atti conseguenti.


 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Roma Capitale;

Visto l’art. 114 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2023 il Cons. Antonella Manzione e udito per il ricorrente l’avvocato Fabrizio Viola, avendo la difesa di Roma Capitale avanzato istanza di passaggio in decisione senza previa discussione;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


 

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso proposto dinanzi al T.a.r. per il Lazio, sede di Roma, il signor -OMISSIS- ha impugnato la disposizione dirigenziale n. -OMISSIS-, prot. n-OMISSIS-, con la quale il Comune di Roma Capitale ne ha rigettato l’istanza di condono ai sensi dell’art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 326, convertito con modificazioni, dalla l. 24 novembre 2003, n. 326 e della l.r. 8 novembre 2004, n. 12, presentata il -OMISSIS-) in relazione al parziale cambio di destinazione d’uso, da magazzino a negozio, di un locale ubicato alla via -OMISSIS-. Ha impugnato altresì l’ingiunzione a demolire e l’intimazione a non proseguire le attività commerciali esercitate in loco.

2. Il Tribunale adito, con sentenza n. 33082/2010, ha respinto il ricorso, sull’assunto che non sarebbe stata provata l’avvenuta realizzazione dell’intervento in epoca antecedente al 31 marzo 2003 (termine ultimo per la fruizione dell’invocato “terzo condono edilizio” di cui alla legge n. 326/2003), giusta l’avvenuto acquisto dell’immobile da parte dei genitori dell’appellante in data successiva (3 aprile 2003), la richiesta di preventivi di spesa riferiti all’impianto elettrico in epoca ritenuta troppo prossima al termine finale indicato dal legislatore (18 marzo 2003), nonché l’inoltro delle comunicazioni finalizzate all’avvio dell’attività di vendita al dettaglio e di laboratorio addirittura rispettivamente nel gennaio e nell’ottobre del 2005.

3. Con la sentenza n. 3667 del 2020, segnata in epigrafe, la Sezione è addivenuta a conclusioni diametralmente opposte, accogliendo l’appello e annullando gli atti avversati. In maggior dettaglio, effettuata un’analitica ricostruzione del quadro normativo avuto riguardo in particolare al paradigma definitorio di riferimento (modifica di destinazione d’uso senza opere) e alla applicabilità allo stesso del regime delle sanatorie, ne ha sancito la convenienza, piuttosto che la doverosità, ben potendo l’interessato adibire l’immobile ad esercizio commerciale, giusta la sua insistenza in una zona omogenea che ammette la presenza tanto di negozi, quanto di magazzini. «Se così è, quindi, le sole necessità per la proprietà, ovvero per il caso dell’appellante Signor -OMISSIS-, dell’utilizzatore qualificato del relativo immobile, era[no] costituito[e], oltreché dal dovuto aggiornamento della categoria catastale da C2 (magazzini e depositi) a C1 (negozi e botteghe, nella specie assorbente anche della categoria C3, a sua volta costituita da laboratori per arti e mestieri) con conseguente mutamento della relativa rendita, anche dal parimenti dovuto mutamento sotto il profilo urbanistico della categoria di destinazione d’uso, a’ sensi del combinato disposto dell’art. 7 della l.r. 2 luglio 1987, n. 36 e degli artt. 14 e 15 della l.r. 12 settembre 1977, n. 35, definendola - per l’appunto – nel nuovo assetto dell’immobile come “commerciale”». La mancanza di “opere”, inoltre, comportava ex se che di esse non si facesse menzione nell’apposito modulo prestampato utilizzato per la presentazione dell’istanza, senza che l’omissione integri in alcun modo una dichiarazione falsa o comunque non veritiera e senza che la medesima circostanza abbia potuto inficiare, a monte, l’atto di acquisto dell’immobile. Al contrario, essendo la parte entrata nella disponibilità del bene anticipatamente, mediante traditio clavium, rispetto alla formalizzazione della compravendita effettuata dai propri genitori (ovvero nel febbraio 2003), ben ha potuto attivarsi per rendere funzionale da subito il locale all’attività di vendita. L’adeguamento dell’impianto elettrico, d’altro canto, evidentemente effettuato a ridosso della scadenza del termine per l’ultimazione dell’intervento (preventivi del 18 marzo 2003), non costituisce certo un’“opera” rilevante sotto il profilo edilizio, sì da cambiare l’inquadramento del presunto abuso, né pertanto poteva essere oggetto di ingiunzione demolitoria. La documentazione contabile riferita alle forniture di materiale versata in atti è idonea a dimostrare l’avvenuta ultimazione della modifica entro il 31 marzo 2003, mentre nessun rilievo in senso contrario può essere attribuito alla presentazione delle comunicazioni riferite all’esercizio dell’attività a distanza di anni, «anche e soprattutto in considerazione della circostanza che, in ordine a quanto previsto dal predetto art. 7, comma 2, lett. c) [del d.lgs. n. 114 del 1998, n.d.r.] l’attuale appellante, con riguardo all’obbligatoria indicazione dell’“ubicazione” e della “superficie di vendita dell’esercizio”, solo a quel momento aveva potuto allegare la copia della propria domanda di condono edilizio per documentare che erano già state adempiute le incombenze per rendere l’esercizio medesimo effettivamente “commerciale” al fine di praticare ivi anche l’attività di vendita a quel momento comunicata».

4. Con nota del 22 settembre 2020, reiterata in data 27 luglio 2022, a fronte della perdurante inerzia degli uffici, il signor -OMISSIS- ha diffidato il Comune di Roma Capitale ad avviare e concludere il procedimento di rilascio del condono.

5. Con l’odierno ricorso, depositato l’8 novembre 2022, lo stesso ha quindi chiesto l’ottemperanza della ridetta pronuncia del Consiglio di Stato.

6. Più nel dettaglio, richiamati i passaggi salienti della sentenza ottemperanda, ivi compreso il riferimento alla sostanziale ultroneità dell’istanza avanzata a fronte della sottesa situazione di fatto dell’immobile, ne ha richiesto l’esecuzione se del caso mediante la nomina di un Commissario ad acta.

7. Si è costituito in giudizio il Comune di Roma Capitale per chiedere il rigetto del ricorso, nonché, in ogni caso, eccepire la prescrizione di quanto eventualmente preteso a titolo indennitario, risarcitorio e/o di ristoro di qualsiasi natura.

7.1. In data 20 dicembre 2022 ha prodotto relazione dell’ufficio competente in materia di condoni nella quale, a giustificazione del ritardo nell’avvio della riedizione del potere, si invocano le problematiche organizzative connesse alla pandemia da COVID 19, nonché, più di recente, la riferita impossibilità di accedere ai locali-archivio delle pratiche protrattasi dal 22 aprile 2021 al 5 aprile 2022, giusta una non meglio precisata comunicazione al riguardo da parte della Società affidataria del servizio “Risorse per Roma”.

7.1.2. Ha versato in atti la nota del 5 gennaio 2023 della responsabile dell’unità “Supporto legale” della medesima Società, nella quale si dà finalmente notizia del “riavvio” dell’iter istruttorio, ribadendo tuttavia l’incertezza degli esiti, sull’assunto che la sentenza ottemperanda non avrebbe attinto al contenuto della propria futura valutazione.

7.1.3. Infine, in data 22 marzo 2023, a riprova del preannunciato riavvio della pratica, ha prodotto la comunicazione inoltrata al ricorrente via PEC il 20 gennaio 2023 di richiesta di copiosa documentazione integrativa, atta anche a dimostrare l’epoca di realizzazione e la consistenza dell’abuso, significando la necessità della sua produzione esclusivamente tramite il sistema informatico dedicato accessibile dall’apposita piattaforma.

8. La causa è stata trattenuta in decisione nella camera di consiglio dell’8 maggio 2023.

9. Il Collegio ritiene la domanda di ottemperanza fondata per le ragioni di seguito esplicitate.

10. Va premesso che l’Amministrazione è sempre tenuta ad eseguire il giudicato e per nessuna ragione di opportunità amministrativa o di difficoltà pratica può sottrarsi a tale obbligo, non avendo, in proposito, alcuna discrezionalità per quanto concerne l’an ed il quando, ma esclusivamente in ordine al quomodo. Tale ultima precisazione va tuttavia mediata attraverso il filtro del contenuto concreto della sentenza da ottemperare. Pur tenendo evidentemente fermo il limite invalicabile del giudicato, che rende ontologicamente estraneo all’alveo dei giudizi de quibus il riesame di questioni già compiutamente definite, è evidente infatti che gli stessi implicano un margine di cognizione intrinseco condizionato dallo sviluppo motivazionale della pronuncia ad essi sottesa.

10.1. La disamina delle domande astrattamente proponibili con il ricorso ex art. 114 c.p.a., che possono addirittura risolversi in una richiesta interpretativa (comma 5), ha fatto emergere dunque da tempo la natura (anche) di cognizione, e non di sola mera esecuzione, del giudizio di ottemperanza. Poiché la sentenza del giudice amministrativo si inserisce nel complesso rapporto che intercorre tra la pubblica amministrazione e il privato, si è pertanto coniato il concetto di “giudicato a formazione progressiva”, ad indicare la complementarietà tra le due sentenze integrate tra di loro -quella da ottemperare e quella che ne definisce l’esecuzione - seppure conseguano a distinti processi, evidentemente coordinati.

10.1.2. Costituisce dunque principio ormai consolidato in giurisprudenza quello in forza del quale il giudice dell’ottemperanza può arricchire, integrare e dettagliare le argomentazioni rese in sede di cognizione dagli organi della giustizia amministrativa. In altri termini, il contenuto conformativo del dictum giudiziale può essere precisato in termini non di sola “esecuzione”, ma più propriamente di “attuazione” in senso stretto, purché evidentemente se ne ravvisi la necessità anche in funzione propulsiva del corretto operato della P.A., dando così effettività alle tutele esperite, senza nel contempo né stravolgere, ovvero semplicemente modificare, il giudicato originario, né, men che meno, invadere competenze riservate alla discrezionalità amministrativa.

10.1.3. Sul punto, superando i dubbi interpretativi avanzati dalla Sezione rimettente circa la compatibilità eurounitaria del richiamato modello di graduale costruzione del giudicato amministrativo, si è pronunciata anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, A.P., 9 giugno 2016, n. 11), ricordando come proprio l’integrazione giurisdizionale delle pronunce conformative rese in sede di cognizione consente pure di “recuperare” eventuali difformità della stessa rispetto al diritto europeo. Si legge dunque in motivazione che «la dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva - non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni 'integrative', ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale».

11. La prima operazione ermeneutica dunque che il giudice dell’ottemperanza è chiamato ad effettuare attiene all’esatta perimetrazione del contenuto della sentenza da eseguire, che ha, come noto, effetti sia ripristinatori, consistenti nell’obbligo per l’amministrazione di adeguare lo stato di fatto a quello di diritto, sia conformativi in senso stretto. È innanzi tutto alla luce di questi ultimi che va valutata la sussistenza del presupposto dell’inottemperanza, individuabile non tanto e non solo nella totale inerzia dell’amministrazione, bensì anche in quei comportamenti che in quanto parzialmente esecutivi del giudicato, ovvero solo formalmente tali, ne costituiscono nella sostanza un’elusione, piuttosto che una violazione. Nel caso di specie, cioè, il Collegio è chiamato a valutare se la richiesta di produzioni documentali avanzata dal Comune di Roma Capitale nel gennaio 2023, a distanza di anni dalla prima diffida del ricorrente, abbia fatto venir meno il precedente inadempimento, ovvero, più in generale, se il mero “riavvio” dell’istruttoria sia sufficiente a configurare la riedizione del potere che gli era stata demandata.

12. Il Collegio ritiene che in generale il tardivo avvio di un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso, come quello di cui è causa, mediante nuova richiesta di documentazione, senza chiarire le tempistiche finali di definizione dello stesso, ovvero senza specificare le sopravvenienze che ne hanno reso necessaria l’acquisizione anche in riferimento a situazioni, di fatto e di diritto, ormai cristallizzate nel giudicato, non possa essere equiparato alla doverosa ottemperanza allo stesso.

13. Afferma la sentenza da ottemperare che il ricorrente per la legittimazione postuma del proprio intervento avrebbe potuto attingere anche al paradigma dell’accertamento di conformità di cui agli artt. 7 della l.r. n. 36 del 1987 e 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, anziché, come ha fatto con l’istanza del 10 dicembre 2004, alla disciplina del condono di cui all’art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 326. La scelta effettuata viene in qualche modo giustificata, seppure in via presuntiva, in termini di convenienza, stante che «fermo comunque restando l’obbligo di corrispondere in entrambi i casi la somma dovuta a titolo di incremento degli oneri di urbanizzazione, il pagamento dell’oblazione prevista per il condono di cui all’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 convertito con l. n. 326 del 2003 presumibilmente risultava più vantaggioso per l’attuale appellante rispetto al pagamento della sanzione contemplata dagli anzidetti art. 36 del t.u. approvato con d.p.r. n. 380 del 2001 e art. 22 della l.r. n. 15 del 2008».

14. L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria” consiste nella regolarizzazione di abusi “formali”, in quanto l’opera è stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dallo stesso, ma senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda.

14.1. Per contro il “condono” -termine che non figura in realtà in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia linguistica ad utilizzare una parola evidentemente evocativa della portata sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite- produce l’effetto di estinguere anche l’illecito penale per il tramite del previo pagamento di una sanzione pecuniaria. In particolare, in Italia si sono succedute tre leggi di condono, delle quali viene qui in evidenza la terza (art. 32 della più volte ricordata l. 24 novembre 2003, n. 326, di conversione del d.l. 30 settembre 2003, n. 269), che ha esteso la disciplina dell’istituto, quale risultante dai capi IV e V della l. n. 47/1985, come modificati dall’art. 39 della l. n. 724/1994, alle opere abusive ultimate entro il 31 marzo 2003, seppure ponendo l’ulteriore limite che esse non abbiano comportato un ampliamento del manufatto superiore al 30 % della volumetria originaria o, in alternativa, superiore a 750 metri cubi.

14.2. La riconosciuta sussistenza dei requisiti per avanzare sia un’istanza di sanatoria ordinaria che di condono, implica l’affermazione che nel caso di specie sussiste anche il requisito della doppia conformità, seppure non necessario in relazione al percorso seguito.

15. Il fatto che le finestre temporali, pure prorogate, per accedere al condono si siano chiuse rispettivamente il 30 novembre 1985, il 31 marzo 1995 e, per quanto qui di interesse, il 10 dicembre 2004, non ha comunque reso obsoleto l’istituto: sebbene siano trascorsi decenni dalla presentazione delle istanze, infatti, non sono pochi i Comuni italiani presso i quali tali pratiche sono ancora in attesa di definizione, cosicché anche questa tipologia di istanza, al pari di quella ordinaria, deve essere tenuta presente in sede di vaglio delle sanatorie edilizie.

16. Il signor -OMISSIS- ha presentato la propria istanza di condono senza fare riferimento agli interventi sull’impiantistica elettrica. A ciò il Consiglio di Stato, tuttavia, non ha inteso attribuire alcuna rilevanza omissiva, giusta la ritenuta inconsistenza degli stessi sotto il profilo edilizio. Peraltro solo stralciando dalla nozione di “opere” ridetta tipologia di interventi, ha potuto connotare come meramente funzionale il cambio di destinazione d’uso effettuato dal ricorrente.

16.1. Ciò rende non del tutto intellegibili, se non incoerenti, talune delle richieste integrative avanzate dalla Società “Risorse per Roma” alla parte nel gennaio del 2003, in quanto apparentemente riferite proprio alla necessità di qualificare l’abuso, quantificandone la consistenza, pur identificandosi essa necessariamente con la mera indicazione della superficie del negozio e del laboratorio, agevolmente desumibili, oltre che dalla istanza di condono del 2004, dai contenuti della comunicazione di avvio dell’attività commerciale resa ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 114 del 1998.

17. Come la sentenza n. 3667/2020 ha diffusamente chiarito, la modifica di destinazione d’uso non costituisce una tipologia di intervento edilizio ex se, bensì piuttosto il suo effetto giuridico.

Non a caso la relativa dizione non figura nell’elenco delle definizioni contenuto nell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma compare nelle singole declinazioni delle stesse, ora quale limite negativo (come per la manutenzione straordinaria, limitatamente ai cambi urbanisticamente rilevanti), ora, al contrario, come possibile esemplificazione contenutistica (come per il restauro e risanamento conservativo di cui alla successiva lettera c) del medesimo art.3, che comprende anche il cambio delle destinazioni d’uso, purché compatibile con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso che i relativi interventi devono comunque rispettare).

17.1. La rilevanza sotto il profilo urbanistico del cambio di destinazione d’uso eleva ad intervento assentibile anche quello non accompagnato da alcuna opera edilizia, ancorché minima, denominato appunto “funzionale”, per enfatizzarne il riferimento al mero utilizzo dell’immobile, a prescindere dagli adattamenti che si siano resi necessari allo scopo. Ad oggi ridetta rilevanza è agevolmente individuabile in ragione della categorizzazione declinata nell’art. 23 ter, inserito nel T.u.e. col c.d. decreto legge “Sblocca Italia” (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164), inapplicabile ratione temporis al caso di specie. Le cinque categorie ivi contemplate, che le leggi regionali possono solo precisare, ma non derogare, rispondono al preciso intento di omogeneizzare su tali aspetti le scelte di governo del territorio, evitando frammentazioni, finanche terminologiche, sicuramente contrarie ai più elementari principi di certezza del diritto e foriere di oneri aggiuntivi per i cittadini-utenti.

17.2. La sentenza ottemperanda, premessa una lunga digressione sulla storia giuridica della fattispecie, anche antecedente alla legge n. 47 del 1985, ha alla fine convenuto sulla opportunità di “sanare” lo stato di fatto dell’avvenuto passaggio da magazzino a deposito «quale legittimazione all’inserimento nel locale tessuto urbanistico di un abuso consumato con riguardo ad un utilizzo dell’immobile comunque conforme alla strumentazione urbanistica vigente». Allo scopo, si è preoccupata di giustificare la ritenuta assentibilità postuma tramite condono sulla base di una lettura costituzionalmente orientata della norma, che non può che applicarsi anche «a coloro che hanno perpetrato abusi ben meno gravi rispetto a coloro che hanno agito in dispregio alle norme di legge non richiedendo al tempo dovuto il rilascio del titolo edilizio ovvero, in dispregio alle norme urbanistiche, realizzando opere dalle stesse vietate ovvero adibendo immobili ad utilizzi dalle norme medesime parimenti inibiti».

18. Va ora ricordato che il regime procedurale per la definizione delle pratiche di condono è contenuto nell’art. 35, comma 17, della l. n. 47/1985, il quale prevede che « Fermo il disposto del primo comma dell’articolo 40 [rappresentazione dolosamente infedele]e con l’esclusione dei casi di cui all’articolo 33 [contrasto con vincoli nominativamente indicati ], decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest’ultima si intende accolta ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all’ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all’accatastamento».

19. Per quanto nel caso di specie il ricorrente non invochi l’avvenuta formazione del silenzio assenso successivamente al giudicato, la circostanza che il legislatore abbia previsto tale modalità di acquisizione del titolo – contrariamente, peraltro, a quanto accade per l’accertamento di conformità – non può essere priva di conseguenze.

20. Il Collegio ritiene infatti che l’efficacia delle scelte di semplificazione dei regimi di accesso a determinate attività, che il legislatore ha tentato via via di rafforzare introducendo ulteriori rimedi ed accentuando gli elementi di garanzia della certezza delle situazioni giuridiche, si giochi preliminarmente sul piano delle prassi distorte degli uffici, che si collocano astrattamente a monte dello stesso avvio dei procedimenti. La presunta incompletezza di una pratica, infatti, finisce per diventare il grimaldello per uno stillicidio di richieste aggiuntive, spesso ammantate dall’egida della consultazione collaborativa, tali comunque da procrastinare sine die il perfezionamento dei procedimenti ad istanza di parte.

20.1. In altre parole, una lettura degli istituti di semplificazione, tra i quali sicuramente rientra anche il silenzio assenso, che sia conforme ai principi generali dell’attività amministrativa impone che il comportamento dell’Amministrazione, al pari di quello del privato, sia improntato alla correttezza e alla buona fede, come peraltro oggi espressamente codificato dall’art. 1 della legge n. 241 del 1990 (comma 2-bis, inserito dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76 convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, che ha positivizzato principi comunque ritenuti immanenti al sistema). Un’ingiustificata attesa nell’avvio dell’istruttoria di una pratica, laddove la stessa non sia prima facie del tutto priva dei requisiti minimi di esaminabilità in concreto, non solo non può impedire la decorrenza del termine di maturazione del silenzio assenso, ove previsto, ma a maggior ragione impone la successiva compressione dei tempi di chiusura della stessa, “rimediando” per quanto possibile al pregresso colpevole ritardo nei confronti della legittima aspettativa del cittadino a conoscere il contenuto e le ragioni, qualunque esse siano, delle scelte dell’amministrazione. Diversamente opinando egli si ritroverebbe anacronisticamente relegato in un ruolo di suddito, continuamente esposto al rischio di vedersi procrastinare il dies a quo per consolidare la propria situazione, in sostanziale dispregio di qualsivoglia tentativo alleggerimento degli oneri e in totale antitesi con la stessa nozione di semplificazione o liberalizzazione delle attività economiche.

21. Il meccanismo del “silenzio-assenso” risponde infatti ad una valutazione legale tipica in forza della quale l’inerzia equivale a provvedimento di accoglimento, nel senso che gli effetti promananti dalla fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell’atto amministrativo. Con il corollario che, ove ne sussistano i requisiti di formazione, il titolo abilitativo può perfezionarsi anche con riguardo ad una domanda non conforme a legge. Come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746) reputare che la fattispecie sia produttiva di effetti soltanto ove corrispondente alla disciplina sostanziale, significherebbe sottrarre i titoli così formatisi al regime della annullabilità, per contro espressamente prevista. L’art. 21 novies della l. n. 241 del 1990, infatti, nel disciplinare in generale l’istituto dell’annullamento d’ufficio, ne individua l’oggetto (anche) nel «provvedimento [che] si sia formato ai sensi dell’art. 20», con ciò presupponendo evidentemente che la violazione di legge non incida sul perfezionamento della fattispecie, bensì rilevi (secondo i canoni generali) in termini di illegittimità dell’atto. Da qui il rimedio postumo che l’ordinamento appronta per l’Amministrazione che si ravveda e ravvisi la necessità di rimediare agli effetti del proprio indebito comportamento inerte.

21.2. Indicazioni ancora più chiare nel senso della finalità acceleratoria dell’agire amministrativo dell’istituto sono rinvenibili nella recente -e non aliena da criticità- disciplina della c.d. “certificazione del silenzio”, nonché della sanzione di inefficacia delle decisioni tardive rispetto alla significatività attribuita al decorso del tempo dal legislatore.

22. La formulazione del comma 8, dell’art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, avente ad oggetto il procedimento di rilascio del permesso di costruire “ordinario”, è stata infatti integrata con la previsione che «Fermi restando gli effetti comunque prodotti dal silenzio, lo sportello unico per l’edilizia rilascia anche in via telematica, entro quindici giorni dalla richiesta dell’interessato, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento, in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase e di provvedimenti di diniego; altrimenti, nello stesso termine, comunica all’interessato che tali atti sono intervenuti» (l’intero periodo è stato inserito dal medesimo d.l. n. 76 del 2020, sopra richiamato).

22.1. Vero è che analoga indicazione non è stata inserita (comprensibilmente, trattandosi, come chiarito, di istituto “ad esaurimento”, seppure ancora ben lontano dall’essere “esaurito”) con riferimento ai procedimenti di condono.

E’ tuttavia emblematico delle criticità gestionali diffuse in ambito urbanistico-edilizio il fatto che la previsione dell’art. 20 del T.u.e. sia un’anticipazione di quanto successivamente esteso a tutti i provvedimenti per silentium. Il comma 2 bis dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, infatti, inserito dal successivo d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla l. 29 luglio 2021, n. 108, prevede ora, in maniera peraltro neppure del tutto sovrapponibile, che: « Nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale a provvedimento di accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso, l’amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo […]» La disposizione si completa addirittura con la facoltà riconosciuta al privato, decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, di sostituire l’attestazione con una propria dichiarazione resa ai sensi dell’articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. E’ ancora una volta evidente lo sforzo del legislatore per recuperare efficacia e conseguente attrattività all’istituto, giusta la riscontrata comprensibile riluttanza del privato-cittadino all’utilizzo di un titolo tacito e non alla sua “materializzazione” sul piano formale, a torto o a ragione percepita come più cautelante a fronte di un eventuale controllo. Il tutto, ovviamente, lasciando inevitabilmente immutata la struttura essenziale del provvedimento tacito, comprensiva delle scansioni temporali che ne determinano la formazione.

22.2. L’art. 2, comma 8-bis, della legge n. 241 del 1990 (pure introdotto dal decreto-legge n. 76 del 2020, convertito dalla legge n. 120 del 2020), come anticipato al § 21, afferma a sua volta che: «Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, […] sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall'articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni», confermando che, decorso il termine, all’Amministrazione residua soltanto il potere di autotutela.

23. Né nel caso di specie un maggior rigore dell’istruttoria -che comunque non può non tenere conto del lungo periodo di precedente inerzia- può trovare fondamento nella natura di illecito sostanziale dell’abuso perpetrato, sia in quanto il modello procedimentale non lo consente, avendo già fissato un termine sufficientemente lungo per l’evasione delle pratiche; sia soprattutto perché il Consiglio di Stato ha ampiamente argomentato sulla portata meramente formale dello stesso, che in quanto in possesso del requisito della doppia conformità ben avrebbe consentito anche l’accesso al regime della sanatoria ordinaria.

24. In ogni caso, se si eccettua il caso di “inconfigurabilità” della domanda, la inadeguatezza della documentazione a corredo presuppone un primo screening dell’istanza originariamente presentata, che nel caso di specie pare essere stata invece totalmente ignorata dal Comune di Roma Capitale, che ha nuovamente preteso la documentazione, anche fotografica, del cambio d’uso illo tempore effettuato.

24.1. Va infatti ricordato che con il calzante neologismo giuridico della “inconfigurabilità” la giurisprudenza ha inteso richiamare tutte le situazioni di non rispondenza della richiesta neppure al “modello normativo astratto” prefigurato dal legislatore (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746), cui possono essere ricondotte anche le ipotesi di totale inconsistenza della stessa, sì da rendere impossibile l’individuazione a priori dello stesso oggetto dell’istanza. In materia di condono, ad esempio, costituisce requisito condizionante la “consistenza” della domanda per esplicita indicazione del legislatore l’attestazione del versamento della somma dovuta a titolo di oblazione, sicché solo ove la sua presentazione nel termine perentorio previsto ne sia corredata si produce l’effetto sospensivo del procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative (art. 38, comma 1, della legge n. 47 del 1985).

24.2. L’“inconfigurabilità”, dunque, include, senza esaurirli, i casi di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza delle istanze, che tuttavia non sarebbero esenti dall’obbligo di provvedere (sia pure redatto in forma semplificata), giusta la chiara previsione in tal senso dell’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990.

24.3. Ad ogni buon fine, nel caso di specie neppure può ipotizzarsi una qualche “inconfigurabilità” della domanda, atteso che i contenuti della stessa sono stati definitivamente “interpretati” dalla sentenza n. 3667/2020, sia con riferimento all’inquadramento tipologico dell’intervento (modifica di destinazione d’uso senza opere), sia in relazione alla adeguatezza della documentazione probatoria della data di ultimazione (entro il 31 marzo 2003).

25. Il silenzio-assenso non può essere ritenuto la modalità “ordinaria” di svolgimento dell’azione amministrativa. Così come, pertanto, al cittadino che lo invoca o che comunque può beneficiarne, va richiesto un comportamento responsabile e collaborativo, evitando l’inoltro di istanze-scatole vuote, ovvero, peggio ancora, del tutto eterogenee rispetto al paradigma procedimentale invocato (si pensi, a mero titolo di esempio, all’utilizzo palesemente improprio di procedimenti dichiarativi, quali in particolare la CIL o la CILA); in egual misura l’Amministrazione è tenuta al rispetto delle scansioni procedurali previste e, ancor prima e a prescindere, ad un comportamento che non si palesi come inutilmente e immotivatamente dilatorio, seppure formalmente e astrattamente corretto.

26. Va da sé, dunque, che tutto si sposta sul piano delle responsabilità, giusta la previsione di cui all’articolo 2 della l.n. 241 del 1990 secondo cui «la mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente» (comma 9).

27. In tale cornice, si colloca anche l’annosa questione dell’ampiezza del potere amministrativo in sede di sua riedizione a seguito di un pregresso giudicato, da sempre al centro del dibattito dottrinario e giurisprudenziale.

28. Per conferire effettività ai rimedi giurisdizionali, è stata perfino elaborata la (discussa) teoria del cosiddetto “one shot temperato” o della “doppia chance”, in forza della quale l’amministrazione pubblica che abbia subito l’annullamento di un proprio atto potrebbe rinnovarlo una sola volta e, quindi, dovrebbe riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, ogni questione che ritenga rilevante, senza tornare in seguito a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati (Cons. Stato, sez. II, 14 aprile 2020, n. 2378; id., 4 agosto 2022, n. -OMISSIS-29).

28.1. Sul piano normativo, la medesima esigenza di concentrazione ed effettività di tutela ha ispirato le modifiche apportate dall’art. 12 del più volte richiamato d.l. 16 luglio 2020, n. 76 all’art. 10 bis della l. n. 241 del 1990. La natura sostanziale o processuale della disposizione (il c.d. processualprocedimento) e il conseguente impatto della novella sulla validità del provvedimento elusivo comunque adottato, secondo la (nuova) disciplina dell’art. 21 octies, ha dato adito a pronunce contrastanti.

28.2. Senza attingere a tale problematica di diritto transitorio, il Collegio ritiene comunque importante, quale strumento interpretativo del contesto, richiamare l’ulteriore meccanismo che il legislatore ha inteso affiancare alla limitazione infraprocedimentale della capacità di determinarsi per la p.a. in relazione all’istituto del preavviso di rigetto. La norma contempla oggi infatti anche un limite allo jus variandi dell’amministrazione proprio per il caso di riesercizio del potere in conseguenza di un giudicato di annullamento, prevedendo espressamente che «In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l'amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall'istruttoria del provvedimento annullato» (c.d. principio once only). A tal proposito, è ancora illuminante il precedente della sezione (Cons. Stato, sez. II, n. -OMISSIS-29/2022) ove si afferma che anche tale regola troverebbe applicazione solo ai procedimenti successivi all’entrata in vigore della novella, avuto riguardo peraltro al loro “incardinamento” originario e non alla data in cui viene riesercitato, ora per allora, il relativo potere.

29. Nel caso di specie, dunque, i contenuti dell’originario preavviso di rigetto, risalente all’8 ottobre 2007, prot. n. 166770, assumono rilievo solo in quanto è in riscontro dello stesso che l’interessato ha fornito la documentazione (fatture, preventivi e altro) che il Consiglio di Stato ha ritenuto probanti dell’avvenuta realizzazione della modifica prima del termine finale previsto dalla legge. Salvo dunque il Comune di Roma Capitale disponga di elementi sopravvenuti idonei a confutare ridette risultanze, il ricorrente ha ormai compiutamente adempiuto all’onere probatorio che gli incombeva al riguardo, sicché qualsivoglia ulteriore richiesta documentale relativa a tale circostanza costituisce un aggravio procedimentale inammissibile finanche nella più ampia prospettiva di un’ipotetica violazione del principio eurounitario di divieto di gold plating.

30. L’art. 2, comma 7, della l. n. 241, d’altro canto, consente l’interruzione dei termini per la conclusione di un procedimento «per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni».

30.1. Con riferimento al procedimento di rilascio del permesso di costruire l’art. 20 del T.u.e., che costituisce spesso il banco di prova delle difficoltà applicative degli istituti di semplificazione/liberalizzazione, giusta l’esigenza di garantire il perenne controllo sull’assetto del territorio da parte degli Enti territoriali, in maniera analoga consente al responsabile del procedimento di interrompere il termine per il completamento dell’istruttoria una sola volta «entro trenta giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente» (comma 5).

31. In sintesi, la doverosità dell’azione amministrativa e dei suoi tempi rappresenta una peculiare declinazione del principio di legalità, intesa non più solo come limite negativo all’esercizio del potere, ma anche e soprattutto come affermazione in positivo dell’obbligo che ciò avvenga e che avvenga in un tempo utile (o, se si vuole, ragionevole). Così interpretata, essa si raccorda intimamente al principio di buon andamento o, per usare la più moderna terminologia del diritto europeo, del dovere di buona amministrazione. Ed è in tale contesto che si colloca anche il potere conformativo del giudice amministrativo, in sede di cognizione e, ancor più, in sede di ottemperanza, nella direzione della effettività delle tutele a presidio, appunto, delle legalità e quindi del buon andamento e della efficienza dell’agire pubblico. Una lettura armonica dei principi sottesi alle scelte di semplificazione e liberalizzazione via via rafforzate e ribadite dal legislatore, che si pone a monte dell’esegesi puntuale delle singole norme, pur traendo ragione dal complesso delle stesse, rappresenta la prima cartina di tornasole dell’efficacia di qualsiasi riforma intervenuta al riguardo.

32. Alla luce di tutto quanto sopra è evidente che il comportamento del Comune di Roma Capitale, pure dopo il formale (ri)avvio dell’istruttoria del procedimento, senza peraltro indicare alcuna tempistica di chiusura dello stesso, integra il presupposto dell’inottemperanza al giudicato riveniente dalla sentenza n. 3667/2020.

33. Nessun rilievo scusante del pregresso ritardo, giusta la consistenza dello stesso, può infatti essere attribuita alle invocate criticità conseguite alla pandemia. Il legislatore ha da subito fornito alla pubblica amministrazione un idoneo strumentario giuridico finalizzato a contemperare le esigenze di tutela della salute del lavoratore con quelle di continuità dei servizi, proprio allo scopo di scongiurarne la totale paralisi. L’utilizzo di modalità alternative alla presenza fisica, infatti, quali lo smart working ovvero le analoghe forme di lavoro c.d. “agile” o da remoto, non si sono risolte in un continuativo, inderogabile e generalizzato divieto di accesso presso le sedi di servizio, ma hanno richiesto da parte datoriale una doverosa analisi dei contenuti delle proprie attività, approntando, ove necessario in relazione alla concreta tipologia delle stesse, sistemi di turnazione rispettosi del distanziamento sociale. La circostanza poi che la problematica si sia riproposta giusta la comunicazione del CdA della Società Risorse per Roma, che ha vietato l’accesso fisico all’archivio dal 22 aprile 2021 al 5 aprile 2022, rende addirittura paradossale la mancanza di interlocuzioni documentate con i cittadini, evidentemente del tutto ignari del disservizio. In tale contesto tutt’affatto encomiabile, il richiamo all’ «inevitabile» (ulteriore) ritardo nella definizione delle pratiche suona del tutto incomprensibile, a maggior ragione ove rapportato ad una «normale tempistica», auspicabilmente non da ravvisare in quella che ha connotato fino ad oggi lo sviluppo del procedimento di cui è causa. D’altro canto, a tutto concedere alla tesi del Comune di Roma Capitale, con riferimento alle pratiche di condono parrebbe essersi verificata, in conseguenza del mancato accesso finanche del singolo dipendente ai locali archivio, protrattosi senza soluzione di continuità dall’inizio della pandemia, un’autentica paralisi del servizio, a fronte della quale la ripresa non può che imporre un doveroso sforzo acceleratorio, ottimizzando al massimo le risultanze procedurali già acquisite. Quanto detto pretermettendo i dubbi in ordine alla possibilità nel lungo lasso di tempo trascorso di approntare quanto meno una interlocuzione “di cortesia” con i cittadini in senso informativo-tranquillizzante circa la ipotizzata tempistica di risoluzione delle problematiche ovvero la ricerca in atto di soluzioni alternative (ad esempio richiedendo, in questo caso motivatamente, ai diretti interessati di fornire copia di quanto già a suo tempo prodotto agli uffici per valutarne da subito la completezza). Attività effettuabile evidentemente anche da remoto, e che fugherebbe ogni dubbio in ordine all’utilità del servizio durante il periodo di rappresentata interdizione all’accesso. La circostanza, infine, che all’esito di tale trascorso l’Amministrazione rivendichi la propria totale libertà di azione, non solo costituisce una esplicita ammissione di non avere valutato l’effetto conformativo del giudicato, ma, con riferimento alla tempistica, ne rappresenta sin da ora una protratta elusione.

34. Ne consegue la condanna del Comune di Roma Capitale ad eseguire la sentenza n. 3667 del 2020 tenendo conto delle precise statuizione riportate nella stessa (qualificazione e consistenza, nonché epoca di ultimazione, dell’abuso), alla luce delle quali rieditare il proprio potere entro sessanta giorni dal deposito delle integrazioni documentali richieste, ove il ricorrente non ne evidenzi la riconducibilità a dati di fatto già definitivamente acclarati. Solo in caso di protratta inerzia oltre tale termine, all’istruttoria procederà quale commissario ad acta il Prefetto di Roma, con facoltà di delega in favore di un funzionario dell’Ufficio U.T.G. di Roma, il quale, entro l’ulteriore termine di trenta giorni dalla comunicazione dell’inottemperanza (a cura di parte ricorrente), darà corso al procedimento valutando l’effettiva necessità delle richieste ed eventualmente residue integrazioni istruttorie, nonché all’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento.

34.1. Le spese per l’attività commissariale, da liquidarsi con separato decreto al termine della stessa e su istanza del commissario ad acta, vanno poste a carico dell’inadempiente Amministrazione.

35. La peculiarità della vicenda consente invece la compensazione delle spese del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto dichiara l’obbligo del Comune di Roma Capitale di dare esecuzione alla sentenza del Consiglio di Stato - Sez. II, n. 3667/2020, in epigrafe indicata, definendo il procedimento di condono nei tempi indicati in motivazione.

In caso di protratta inerzia oltre tale termine, nomina sin d’ora quale commissario ad acta il Prefetto di Roma, con facoltà di delega in favore di un funzionario dell’Ufficio U.T.G. di Roma, il quale procederà entro l’ulteriore termine di trenta giorni dalla comunicazione dell’inottemperanza a cura di parte ricorrente.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2023 con l’intervento dei magistrati:

Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente

Francesco Frigida, Consigliere

Antonella Manzione, Consigliere, Estensore

Carmelina Addesso, Consigliere

Alessandro Enrico Basilico, Consigliere

 
   

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

Antonella Manzione

 

Gianpiero Paolo Cirillo

 

   

 

   

 

   

 

   

 

   

IL SEGRETARIO