Il mutamento (impropriamente detta "interversione") della detenzione in possesso, come affermato univocamente da questa Corte, non può avvenire mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in un fatto esterno, da cui sia consentito desumere che il detentore ha cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome e per conto proprio - si può realizzare anche mediante il compimento di attività materiali, ma è necessario che l'attività materiale sia tale da manifestare inequivocabilmente
l'intenzione di esercitare il potere esclusivamente "nomine proprio", da rendere cioè esternamente riconoscibile all'avente diritto che il detentore ha cessato di esercitare il potere "nomine alieno" e che intende sostituire alla preesistente intenzione di subordinare il proprio potere a quello altrui l'"animus" di vantare per sé il diritto esercitato
(Sez. 2, n. 1802, 18/02/1995, Rv. 490533; conf. ex multis, Cass. nn. 12149/1999, 5487/2002, 4404/2006, 12968/2006, 1296/2010).
COONSIDERATO che
1. Il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1158 e segg., 2697 cod. civ., nonché 115 e 116 cod. proc. civ. L'O. contesta l'affermazione della Corte etnea, secondo la quale egli non aveva puntualmente aggredito il percorso argomentativo di primo grado, che aveva evidenziato che l'attore, mero detentore, non aveva dimostrato di avere idoneamente mutato la detenzione in possesso. Secondo l'esponente una tale contestazione era stata effettuata, ed anzi gli era stato impedito di provare (la prova per testi non era stata ammessa) di avere, a suo tempo, pagato con denaro proprio l'acquisto dell'immobile intestato alla moglie (donazione indiretta) e che costei, abbandonata, ad un certo punto, la casa familiare, non si era mai opposta al possesso "uti dominus" del marito. Infine, evidenzia che non poteva trarsi alcun significato possessorio dalle dichiarazioni dal medesimo rilasciate nel verbale d'accesso dell'Ufficiale giudiziario, essendosi limitato a chiedere termine.
1.1. Il motivo è manifestamente destituito di giuridico fondamento. La Corte locale, pur avendo reputato che l'appellane non avesse pertinentemente aggredito la ratio decisoria di primo grado, entrata nel merito, giudica la doglianza infondata: il coniuge gode del bene dell'altro coniuge proprietario esclusivo a titolo di detenzione qualificata, dovendosi escludere che egli assuma la qualità di compossessore. In assenza di mutamento del titolo detentivo in possesso l'O. non rivestiva, pertanto, la qualità rivendicata per usucapire. Peraltro la moglie, pienamente esercitando le facoltà del proprietario, aveva concesso plurime ipoteche volontarie sull'immobile di cui si discute. In ragione di quanto esposto non occorreva prendere in esame la valenza delle dichiarazioni rese dall'O. all'Ufficiale giudiziario. Non assume rilievo l'asserto (peraltro puramente apodittico) secondo il quale il denaro per l'acquisto sarebbe stato fornito alla moglie dall'O., poiché, come che fosse stato, era costei ad essere la proprietaria del bene.
La prova per testi, richiamata testualmente dal ricorrente, correttamente non è stata ammessa in quanto inidonea a provare il vantato diritto. Si chiedeva al teste di dire che il ricorrente aveva posseduto, così delegando "contra legem" al medesimo di qualificare il rapporto con la cosa, piuttosto che indicare gli atti materiali assunti come rilevanti; si chiedeva di confermare che la provvista per l'acquisto dell'immobile era stata fornita dal ricorrente, circostanza, questa, come si è già detto, irrilevante; si chiedeva di affermare che la moglie non si era mai opposta al "possesso", essendo del tutto evidente, anche in questo caso la pretesa di delegare al teste la qualificazione del rapporto fattuale. Sarebbero rimasta, in definitiva, priva di prova in cosa fosse consistita la materiale e inequivoca estrinsecazione del vantato possesso. È del tutto evidente che il ricorrente, enunciando i principi regolanti la materia mira a un improprio riesame di merito; di talché, nella sostanza, la censura investe inammissibilmente l'apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito, in questa sede non sindacabile, neppure attraverso l'escamotage dell'evocazione dell'art. 116, cod. proc. civ., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (cfr. Sez. 6, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299 e, da ultimo, da ultimo, S.U. n. 20867/2020 e successivamente, Sez. 5, n. 16016/2021). La denunzia di violazione di legge non determina, per ciò stesso, nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l'accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all'evidenza, occorrente che l'accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459).
2. Di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis, n. 1, cod. proc. civ., da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d'inammissibilità, che può rilevare ai fini dell'art. 334, comma 2, cod. proc. civ., sebbene sia fondata, alla stregua dell'art. 348-bis cod. proc. civ. e dell'art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell'esonerare la Suprema Corte dall'esprimere compiutamente la sua adesione al persistente Corte di Cassazione - copia non ufficiale orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi "inconsistenti".
3. Il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo. 4. Non ritiene il Collegio sussistere le condizioni per sciogliere la pronuncia officiosa di condanna per responsabilità aggravata, ai sensi del comma 3 dell'art. 96 cod. proc. civ., sollecitata dal controricorrente Confalone. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall'art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M. dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrent