Giu L'estrazione di dati archiviati in un supposto informatico, quale è la memoria di un telefono, non costituisce accertamento tecnico irripetibile
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - 25 ottobre 2022 N. 40302
Massima
L'estrazione di dati archiviati in un supposto informatico, quale è la memoria di un telefono, non costituisce accertamento tecnico irripetibile e ciò neppure dopo l'entrata in vigore della L. 18 marzo 2008, n. 48, che ha introdotto unicamente l'obbligo di adottare modalità acquisitive idonee a garantire la conformità dei dati informatici recepiti a quelli originali, con la conseguenza che nè la mancata adozione di tali modalità, nè, a monte, la mancata interlocuzione delle parti al riguardo comportano l'inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti, ferma la necessità di valutare, in concreto, la sussistenza di eventuali alterazioni dei dati originali e la corrispondenza ad essi di quelli estratti. Dunque, solo in caso di mancato rispetto dei protocolli tecnici di comportamento, possono derivare effetti sull'attendibilità della prova in conseguenza dell'accertamento male eseguito (Sez. 5, n. 8893 del 11I'01/2021, Laurenti, Rv. 280623-01).

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - 25 ottobre 2022 N. 40302

1. Il ricorso, unitariamente considerato, presenta profili di inammissibilità.

Le questioni giuridiche sollevate sono manifestamente infondate sia perchè sviluppano censure replicanti i motivi di gravame, prive di concreti rilievi critici sul percorso decisorio della sentenza di appello, sia perchè attinenti a profili di merito imperniati su una lettura alternativa e una reinterpretazione dei dati processuali e delle fonti di prova meramente fattuali, estranee al giudizio di legittimità, tenuto conto anche della coerenza logica e della corretta applicazione dei canoni di valutazione della prova che connotano sia la decisione di appello che la decisione di primo grado.

2. Manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso.

Nel corpo motivazionale della sentenza in verifica, la corte territoriale ha evidenziato che, ai fini della individuazione del lasso temporale nel quale si è articolata la condotta ascritta all'imputato, non assume rilievo l'archiviazione della richiesta di ammonimento, formulata dalla parte offesa in ragione del riavvicinamento al suo aggressore, atteso che la stessa non è di ostacolo alla proposizione di una denuncia per fatti ascrivibili al medesimo periodo.

Tanto, non senza considerare che il temporaneo ed episodico riavvicinamento della vittima al suo persecutore non è idoneo ad interrompere l'abitualità del reato, nè ad inficiare la continuità delle condotte, là dove queste siano tali da generare nella vittima quel progressivo accumulo di disagio che degenera in una delle forme di prostrazione psicologica descritte dall'art. 612 bis c.p. (Sez. 5, n. 46165 del 29/09/2019, M., Rv. 277321; Sez. 5, n. 17240 del 20/01/2020, I., Rv. 279111).

I giudici d'appello hanno replicato in maniera logica, corretta ed adeguata alla censura evidenziando che, in occasione della querela del 09 agosto 2018, la vittima, precisato di non avere avuto contatti con l'imputato nei due mesi precedenti, aveva riferito due episodi di aggressione, risalenti al precedente 20 luglio - allorchè, all'uscita da una discoteca, l'imputato l'aveva costretta a scendere da una macchina a bordo della quale si trovava - e al 31 luglio giorno in cui il A.A. aveva colpito con calci la moto sulla quale ella sedeva -, offrendo una descrizione in sequenza della collocazione temporale e degli effetti derivati dai comportamenti tenuti dall'uomo, sufficiente e idonea a consentire allo stesso un'adeguata difesa e a escludere un reale pregiudizio al diritto di difesa.

Quelle contestate all'imputato sono condotte tutte indistintamente vietate, in ordine alle quali l'imputato ha avuto ampia possibilità di difendersi, sicchè può ecludersi che l'affermazione di penale responsabilità abbia trovato fondamento nell'accertamento di condotte illecite incompatibili, o anche solo eterogenee od eccentriche con quel che la difesa poteva ragionevolmente attendersi dal materiale processuale (Sez. 3, n. 7146 del 04/02/2021, Ogbeifun, Rv. 281477; Sez. 5, n. 33878 del 03/05/2017, Vadacca, Rv. 271607; Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015, dep. 2016, Addio, Rv. 265946; Sez. 2, n. 46242 del 23/11/2005, Magnatta, Rv. 232774).

3. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso con il quale il ricorrente ripropone, da un diverso angolo prospettico, la medesima censura articolata nel primo motivo, questa volta con specifico riferimento ad un'asserita assenza di chiarezza e precisione dei fatti enunciati nella richiesta di rinvio a giudizio.

La funzione attribuita all'enunciazione del fatto di informare l'imputato circa il tenore delle accuse, al fine di consentirgli il pieno esercizio del diritto di difesa, può dirsi soddisfatta, in quanto nell'imputazione sono indicate le condotte moleste e violente assunte dell'imputato, tra le quali anche gli appostamenti nei luoghi frequentati dalla vittima.

4. Privo di pregio è il terzo motivo di ricorso che investe, ai sensi dell'art. 191 c.p.p., l'asserita inutilizzabilità degli screenshot dei messaggi comparsi sul cellulare della vittima, in quanto assunti in violazione delle modalità di acquisizione dei dati informatici previste dalla L. 18 marzo 2008, n. 48.

Nella specie, non vi è ragione per discostarsi dal principio di diritto, ripetutamente affermato in sede di legittimità (Sez. 1, n. 38909 del 10/06/2021, Marziano, Rv. 282072; Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, Branchi, Rv. 266477; Sez. 2, n. 29061 del 01/07/2015, Posanzini, Rv. 264572), secondo cui l'estrazione di dati archiviati in un supposto informatico, quale è la memoria di un telefono, non costituisce accertamento tecnico irripetibile e ciò neppure dopo l'entrata in vigore della L. 18 marzo 2008, n. 48, che ha introdotto unicamente l'obbligo di adottare modalità acquisitive idonee a garantire la conformità dei dati informatici recepiti a quelli originali, con la conseguenza che nè la mancata adozione di tali modalità, nè, a monte, la mancata interlocuzione delle parti al riguardo comportano l'inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti, ferma la necessità di valutare, in concreto, la sussistenza di eventuali alterazioni dei dati originali e la corrispondenza ad essi di quelli estratti. Dunque, solo in caso di mancato rispetto dei protocolli tecnici di comportamento, possono derivare effetti sull'attendibilità della prova in conseguenza dell'accertamento male eseguito (Sez. 5, n. 8893 del 11I'01/2021, Laurenti, Rv. 280623-01).

Nel caso in esame, pur avendo il ricorrente formulato obiezioni e riserve circa il metodo seguito per l'estrapolazione dei messaggi, rileva l'assenza di contestazioni specifiche relative al contenuto delle singole comunicazioni, con le quali, del resto, la difesa non si è confrontata.

Inoltre, la corte territoriale ha indicato le ragioni per le quali ha ritenuto di attribuire all'imputato la provenienza dei messaggi vocali e degli screenshot, che ha ravvisato nel riconoscimento vocale effettuato dalla vittima, nonchè nella riproduzione del "profilo" e dell'immagine dell'imputato sui messaggi inoltrati alla stessa.

5. Manifestamente infondato è il quarto motivo.

5.1 I giudici d'appello hanno replicato in maniera logica, corretta ed adeguata alla censura sottolineando come dalle risultanze processuali poste a fondamento della decisione non fosse possibile sussumere le condotte ascritte all'imputato nella contravvenzione di cui all'art. 660 c.p..

La differenza tra il reato contestato e la contravvenzione risiede nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, ma che si declina nel delitto di cui all'art. 612 bis c.p., qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l'alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre si configura il reato di cui all'art. 660 c.p., nel caso in cui le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Sez. 5, n. 15625 del 09/02/2021, R., Rv. 281029; Sez. 6, n. 23375 del 10/07/2020, M., Rv. 279601).

Nella specie, la Corte ha dato atto delle deposizioni rese dai testi in merito alle condotte dell'imputato, consistite anche in appostamenti nei luoghi frequentati dalla vittima, idonei a cagionarle un grave stato d'ansia e paura.

5.2 Quanto alla assertita sussumibilità delle condotte contestate all'imputato nella fattispecie di cui all'art. 612 c.p., secondo l'orientamento di questa Corte, il reato di atti persecutori, per l'evento di danno di cui è stato connotato, differisce dalla struttura del reato di minacce, che pure ne può rappresentare un elemento costitutivo (Sez. 3, n. 9222 del 16/01/2015, P.C., Rv. 262517).

Nel reato di minacce, infatti, è sufficiente che il male prospettato sia anche soltanto idoneo a incutere timore in un soggetto passivo, menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale, mentre nel delitto di atti persecutori rileva la risposta in concreto prodotta sul soggetto passivo.

Il racconto reso dalla vittima, riscontrato dalle dichiarazioni dei testi, dà ragione delle condotte di minaccia ripetute, consistite in appostamenti e atteggiamenti intimidatori assunti dall'imputato con la consapevolezza della idoneità delle medesime a determinare uno degli eventi alternativamente necessari per l'integrazione della fattispecie legale, nonchè dell'effettivo verificarsi degli stessi.

5.3 In sintesi, il quid p/uris che caratterizza il delitto di atti persecutori rispetto alle minacce ed alle molestie è costituito sia dalla reiterazione delle condotte, sicchè l'illecito può ascriversi nel novero dei reati abituali, sia dalla produzione, in un soggetto ben determinato e in relazione alla sua psicologia, di un grave e perdurante stato di ansia o di paura o di fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da una relazione affettiva o, ancora, in un'alterazione, non voluta, delle proprie abitudini di vita.

6. Manifestamente infondato è il quinto motivo di ricorso, con il quale si lamenta che nel riformare la pena detentiva, erroneamente calcolata da parte del giudice di primo grado, la corte territoriale, pur avendo inflitto all'imputato una pena inferiore a quella stabilita in primo grado, ha violato il divieto di reformatio in peius, allorchè ha posto come base di calcolo una pena superiore al limite edittale minimo, là dove, in primo grado, la stessa era stata individuata proprio nel minimo edittale.

In tale decisione non è ravvisabile la denunciata violazione di norme di legge.

Invero, non viola il divieto di reformatio in peius il giudice di secondo grado che, in applicazione della disciplina sanzionatoria più favorevole, pur non attestandosi allo stesso punto della forbice edittale da cui aveva preso le mosse la sentenza di primo grado, riduca la pena inflitta in termini assoluti, esercitando in maniera motivata il proprio potere discrezionale, (Sez. 6 -, Sentenza n. 51130 del 15/11/2019 Ud. (dep. 18/12/2019) Rv. 278184.

Nella specie, il giudice di primo grado nel determinare la pena base non ha fatto alcun esplicito riferimento al minimo edittale, limitandosi a indicare in quella di mesi otto di reclusione, alla quale è pervenuto a seguito della riduzione prevista per il rito abbreviato, la pena "equa e conforme a giustizia" da infliggere al A.A.. Dunque, il ragionamento della difesa, secondo cui la Corte territoriale avrebbe dovuto necessariamente partire dal minimo edittale, così come il primo giudice, non trova riscontro nelle argomentazioni della sentenza di primo grado.

7. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che si ritiene congruo determinare nell'importo di Euro tremila.

8. Va disposta, in caso di diffusione della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi delle persone coinvolte nella vicenda.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore Cassa delle Ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2022.

Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2022