Giu il requisito dell'univocità degli atti NEL tentativo
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE - 15 maggio 2023 N. 20591
Massima
Osserva, in proposito, il Collegio che l'univocità degli atti costituisce il presupposto indispensabile per ritenere una condotta delittuosa - analoga a quella ascritta a A.A. al capo A - riconducibile all'alveo applicativo dell'art. 56 c.p. Tutto questo risponde all'esigenza di ricostruire in termini processualmente certi la volontà del soggetto attivo del reato rispetto all'aggressione del bene giuridico protetto della norma penale, che, nel caso in esame, è rappresentato dalla vita di B.B., conformemente a quanto statuito da questa Corte, che ai fini dell'accertamento dell'animus necandi sotteso alla condotta esaminata, afferma: "In tema di tentativo, il requisito dell'univocità degli atti va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell'agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo" (Sez. 1, n. 2910 del 18/06/2019, Musicò, Rv. 276401-01; si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 4, n. 7702 del 29/01/2007, Alasia, Rv. 236110-01; Sez. 1, n. 7938 del 03/02/1992, Lamari, Rv. 191241-01).

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE - 15 maggio 2023 N. 20591

1. Il ricorso proposto da A.A. è infondato.

2. Deve ritenersi infondato il primo motivo di ricorso, con cui si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguenti al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo idoneo a consentire la formulazione di un giudizio di responsabilità nei confronti di A.A., tenuto conto delle incertezze probatorie sulla dinamica dell'accoltellamento del figlio, che non permettevano di ritenere dimostrato l'intento omicida sotteso alla condotta illecita dell'imputato, imponendo la riqualificazione del reato contestato al ricorrente al capo A della rubrica nella diversa fattispecie delle lesioni personali aggravate.

Secondo la difesa del ricorrente, la dinamica degli accadimenti criminosi non consentiva di affermare l'idoneità dell'aggressione dell'imputato a provocare la morte di B.B., atteso che le modalità del ferimento della persona offesa non permettevano di ricondurre la condotta del ricorrente all'ipotesi del tentato omicidio, non risultando provati nè l'attitudine offensiva a determinare l'evento mortale nè l'animus necandi sotteso all'azione oggetto di vaglio, anche alla luce delle emergenze probatorie, che prefiguravano uno scenario criminale caratterizzato da un'estrema concitazione dello scontro fisico tra l'imputato e la vittima, incompatibile con il giudizio di colpevolezza formulato nei giudizi di merito.

Osserva, in proposito, il Collegio che l'assunto difensivo, secondo cui l'aggressione armata posta in essere dall'imputato in danno del figlio, B.B., nelle prime ore del (Omissis), era inidonea a provocarne la morte, è smentito dalla sequenza dell'azione criminosa, che risulta correttamente ricostruita nel provvedimento impugnato.

La Corte di appello di Messina, in particolare, fondava il suo giudizio sull'idoneità dell'aggressione armata del ricorrente a provocare la morte del figlio su una pluralità, convergente, di elementi circostanziali, rappresentati dall'uso di un'arma da taglio di elevata potenzialità per colpire il congiunto; dalla violenza della condotta aggressiva del ricorrente; dalla natura delle ferite riportate dalla persona offesa a seguito dell'accoltellamento, che veniva attinta all'addome e al fianco sinistro con alcuni fendenti, che le venivano sferrati, da distanza ravvicinata, con un coltello con una lama lunga ventisette centimetri.

In questa cornice, deve rilevarsi i fatti di reato ascritti all'imputato ai capi A e B, nella loro consistenza materiale, devono ritenersi incontroversi, dovendosi ritenere dimostrato che B.B. veniva colpito dall'imputato con alcuni violenti fendenti, che ne imponevano il ricovero d'urgenza presso l'Ospedale di (Omissis), per sottoporsi alle cure del caso, rese necessarie dalla gravità delle lesioni riportate all'addome e al fianco sinistro. La ricostruzione della sequenza degli accadimenti criminosi, del resto, veniva accertata, fin dalla prima fase delle indagini preliminari, grazie alle dichiarazioni convergenti della vittima e della madre, che si ritenevano corroborate dalle certificazioni mediche acquisite presso la struttura ospedaliera milazzese dove la persona offesa veniva ricoverata a seguito dell'accoltellamento.

La pervicacia dell'atteggiamento del ricorrente, peraltro, è attestata dalla circostanza, parimenti incontroversa, che la persona offesa, qualche ora prima di venire accoltellata dal padre, aveva avuto un acceso diverbio con il genitore, causato da futili motivi, che si verificava nel giardino dell'abitazione dove i due congiunti convivevano. Questo diverbio, secondo quanto inizialmente riferito dalla madre della vittima, costituiva l'antecedente causale dell'aggressione armata, come confermato nel prosieguo delle indagini dalla stessa persona offesa, secondo cui, in quell'occasione, era stato colpito violentemente al volto dal padre con un pugno, che gli aveva provocato una frattura della parete dell'orbita sinistra del volto.

Su questi profili valutativi, al contrario di quanto dedotto dalla difesa del ricorrente, la Corte di appello di Messina si soffermava con un percorso argomentativo conforme alle emergenze probatorie e immune da censure motivazionali, evidenziando che l'azione criminosa di A.A., per le modalità esecutive che si sono richiamate, era certamente idonea a determinare la morte del figlio, avendo provocato uno dei fendenti inferti dall'imputato al congiunto la penetrazione dell'arma da taglio nell'area addominale, nella quale si trovano numerosi organi vitali, messi in pericolo dalla violenza del colpo sferrato dal ricorrente.

Sulla scorta di questa, ineccepibile, ricostruzione dell'accoltellarnento di B.B., che deve essere necessariamente correlata alle circostanze di tempo e di luogo nelle quali maturava la determinazione omicida del ricorrente, la Corte di appello di Messina formulava un giudizio affermativo sull'idoneità degli atti posti in essere dall'imputato a provocare la morte del figlio, nel valutare la quale è necessario richiamare la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui: "L'idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con giudizio "ex ante", tenendo conto delle circostanze in cui opera l'agente e delle modalità dell'azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto" (Sez. 1, n. 27918 del 04/03/2010, Resa, Rv. 248305-01; si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 1, n. 1365 del 02/10/1997, dep. 1998, Tundo, Rv. 209688-01; Sez. 1, n. 7317 del 13/04/1995, Abbà, Rv. 201738-01).

Questo orientamento ermeneutico, del resto, si inserisce nel solco di un filone giurisprudenziale consolidato e risalente nel tempo, che è possibile esplicitare richiamando il seguente, insuperato, principio di diritto: "Al fine di una corretta applicazione dell'art. 56 c.p., occorre ricostruire, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell'agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo. Tutti gli ipotizzabili eventi ulteriori suscettibili di essere posti in relazione causale con la detta condotta, ma non voluti dall'agente come conseguenza della propria azione o omissione, sono pertanto destinati a collocarsi al di fuori della sfera di applicazione della norma che punisce il tentativo, acquistando essi rilievo nel solo caso di effettiva lesione del bene protetto" (Sez. 1, n. 7938 del 03/02/1992, Lubrano di Ricco, Rv. 1912421-01).

2.1. In questa cornice, la difesa di A.A. censurava ulteriormente la sentenza impugnata sotto il profilo dell'assenza di prova dell'univocità degli atti che si concretizzavano nel tentato omicidio contestato al capo A, a sua volta incidente sull'assenza di prova della volontà omicida dell'imputato, che doveva essere esclusa sulla base della sequenza, estremamente concitata, degli accadimenti criminosi, imponendo, anche sotto questo ulteriore profilo, la riqualificazione della fattispecie ascritta al ricorrente nel reato di lesioni personali aggravate.

L'azione armata del ricorrente, infatti, doveva ritenersi sprovvista dell'animus necandi necessario alla configurazione del reato di cui al capo A, essendo evidente che l'accoltellamento di B.B. si concretizzava in un contesto di estrema concitazione, reso evidente sia dallo stato di tensione che caratterizzava i rapporti tra i due congiunti - peraltro attestato dal litigio che aveva preceduto il ferimento della persona offesa e che costituiva l'antecedente causale degli accadimenti criminosi - sia dalle condizioni di alterazione psichica nelle quali versava l'imputato al momento del ferimento del figlio.

Osserva, in proposito, il Collegio che l'univocità degli atti costituisce il presupposto indispensabile per ritenere una condotta delittuosa - analoga a quella ascritta a A.A. al capo A - riconducibile all'alveo applicativo dell'art. 56 c.p. Tutto questo risponde all'esigenza di ricostruire in termini processualmente certi la volontà del soggetto attivo del reato rispetto all'aggressione del bene giuridico protetto della norma penale, che, nel caso in esame, è rappresentato dalla vita di B.B., conformemente a quanto statuito da questa Corte, che ai fini dell'accertamento dell'animus necandi sotteso alla condotta esaminata, afferma: "In tema di tentativo, il requisito dell'univocità degli atti va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell'agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo" (Sez. 1, n. 2910 del 18/06/2019, Musicò, Rv. 276401-01; si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 4, n. 7702 del 29/01/2007, Alasia, Rv. 236110-01; Sez. 1, n. 7938 del 03/02/1992, Lamari, Rv. 191241-01).

Ne discende che, nel caso di specie, il requisito dell'univocità degli atti doveva essere accertato sulla base delle connotazioni concrete della condotta illecita posta in essere da A.A. in danno del figlio, nel senso che il suo comportamento aggressivo doveva possedere, tenuto conto della sequenza criminosa in cui si inseriva - valutata alla luce dello stato di tensione personale che caratterizzava i rapporti tra i due congiunti, di cui si è detto - e della dinamica dell'azione delittuosa, l'attitudine a rendere manifesto il suo intento omicida, desumibile sia dagli atti preparatori sia da quelli esecutivi (Sez. 5, n. 18981 del 22/02/2017, Macori, Rv. 269931-01; Sez. 2, n. 46776 del 20/11/2012, D'Angelo, Rv. 254106-01; Sez. 2, n. 41649 del 05/11/2010, Vingiani, Rv. 248829-01).

In questo contesto, non può non rilevarsi che la dinamica del ferimento di B.B., tenuto conto del contesto criminoso, pur non premeditato, nel quale si inseriva, doveva ritenersi dimostrativa del fatto che l'azione dell'imputato conseguisse a una volontà omicida univocamente orientata, indirizzata nella direzione prefigurata dalle sentenze di merito, consentendo di di affermare che il ricorrente aveva voluto accoltellare la vittima, colpendola violentemente all'addome e al fianco sinistro, noncurante del rischio di causarne il decesso. L'atteggiamento di ostilità manifestato dal padre nei confronti del figlio, del resto, deve ritenersi incontroverso, essendosi già manifestato nel corso del litigio verificatosi qualche ora prima dell'accoltellamento, quando l'imputato colpiva al volto il congiunto provocandogli una frattura parietale.

La morte di B.B., dunque, non si verificava per cause indipendenti dalla volontà del ricorrente, essendo incontroverso che solo la sequenza, estremamente concitata, degli accadimenti e l'intervento tempestivo della madre della persona offesa, impediva il verificarsi di un epilogo infausto dell'aggressione armata dell'imputato; condizioni, queste, che impongono di escludere che la condotta illecita ascritta al ricorrente al capo A possa essere ricondotta alla fattispecie delle lesioni personali aggravate, così come richiesto dal suo difensore.

2.2. Queste considerazioni impongono di ritenere infondato il primo motivo di ricorso.

3. Deve, invece, ritenersi inammissibile il secondo motivo di ricorso, con cui si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguenti al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto del trattamento sanzionatorio irrogato all'imputato, che veniva censurato per la sua eccessività dosimetrica e per la mancata concessione delle attenuanti generiche, che appariva disarmonica rispetto alle circostanze di tempo e di luogo nelle quali erano maturati gli accadimenti criminosi e alle dichiarazioni confessorie del ricorrente, che avevano consentito di accertare la dinamica dei fatti di reato e le ragioni che lo avevano spinto ad aggredire il figlio con le modalità di cui ai capi A e B. Osserva il Collegio che il trattamento sanzionatorio irrogato a A.A. risulta suffragato dalla ricostruzione compiuta dalla Corte di appello di Messina, che si soffermava correttamente sulle connotazioni, oggettive e soggettive, dei reati contestati al ricorrente, escludendo, sulla base di un giudizio dosimetrico ineccepibile, che fosse possibile attenuare il trattamento sanzionatorio nella direzione invocata, tenuto conto della particolare efferatezza dell'aggressione armata posta in essere in danno del figlio e della pervicacia del suo atteggiamento, resa evidente dal litigio verificatosi qualche ora prima dell'accoltellamento, di cui si è già detto.

Queste conclusioni, quindi, traevano origine da una verifica giurisdizionale ineccepibile, che teneva conto dell'elevato disvalore della vicenda delittuosa sottoposta alla cognizione della Corte territoriale messinese e delle modalità con cui le condotte illecite contestate ai capi A e B venivano commesse da A.A. nei confronti del congiunto. L'elevato disvalore dell'aggressione armata posta in essere dall'imputato in danno del figlio rende prive di rilievo le dichiarazioni confessorie del ricorrente, che, peraltro, si inseriscono in un quadro probatorio definitivamente consolidato, per effetto delle accuse, pienamente convergenti, della madre e della persona offesa.

Tali considerazioni, a ben vedere, non consentivano il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, che, com'è noto, rispondono alla funzione di adeguare la pena al caso concreto, nella globalità degli elementi, oggettivi e soggettivi, che la connotano, sul presupposto del riconoscimento di situazioni fattuali, eventualmente riscontrate con riferimento alla posizione dell'imputato. La necessità di un giudizio che coinvolga tale posizione nel suo complesso - e che impediva la concessione delle attenuanti generiche a A.A. - è sintetizzata dal seguente principio di diritto: "Le attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di benevola e discrezionale "concessione" del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni non contemplate specificamente, non comprese cioè tra le circostanze da valutare ai sensi dell'art. 133 c.p., che presentano tuttavia connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva, particolare, considerazione ai fini della quantificazione della pena" (Sez. 6, n. 2642 del 14/01/1999, Catone, Rv. 212804-01; si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 2, n. 30228 del 05/06/2014, Vernucci, Rv. 260054-01; Sez. 2, n. 35930 del 27/06/2002, Martino, Rv. 222351-01; Sez. 6, n. 8668 del 28/05/1999, Milenkovic, Rv. 214200-01).

Questo orientamento ermeneutico, del resto, si inserisce nel solco di un filone giurisprudenziale consolidato e risalente nel tempo, che è possibile esplicitare richiamando il seguente, insuperato, principio di diritto: "Le attenuanti generiche non possono essere intese come una benevola e discrezionale "concessione" del giudice ma come il riconoscimento di situazioni, non contemplate specificamente (art. 62 c.p.), che non sono comprese tra le circostanze da valutare ai sensi dell'art. 133 stesso codice ovvero che presentano connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva, particolare, considerazione; situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull'apprezzamento della quantità del reato e della capacità a delinquere dell'imputato, sicchè il loro riconoscimento consenta di pervenire ad una più valida e perspicace valutazione degli elementi che segnano i parametri per la determinazione della pena da irrogare in concreto" (Sez. F, n. 12280 del 28/08/1990, Poliseri, Rv. 185267-01).

Queste ragioni impongono di ribadire l'inammissibilità del secondo motivo di ricorso.

4. Le considerazioni esposte impongono conclusivamente di ribadire l'infondatezza del ricorso proposto dall'imputato A.A., con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2023