Giu perfezionamento del delitto di infedele patrocinio di cui all'art. 380 cod. pen.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - 14 giugno 2023 N. 25766
Massima
Ai fini del perfezionamento del delitto di infedele patrocinio di cui all'art. 380 cod. pen., è richiesta sia una condotta del patrocinatore irrispettosa dei doveri professionali stabiliti per fini di giustizia a tutela della parte assistita, sia un evento che implichi nocumento agli interessi di quest'ultima, evento che individua il momento consumativo del reato dal quale inizia a decorrere il termine di prescrizione.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - 14 giugno 2023 N. 25766

1. I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.

2. Deve in via preliminare osservarsi che la presente decisione non pone problemi di diritto transitorio ai fini dell'applicazione della disposizione contenuta nell'art. 573 c.p.p., comma 1-bis introdotta dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, art. 33, comma 1, lett. a), n. 2, a decorrere dal 30/12/2022 ai sensi del D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, art. 6, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 dicembre 2022, n. 199, che prevede che "quando la sentenza è impugnata per i soli interessi civili, il giudice d'appello e la Corte di cassazione, se l'impugnazione non è inammissibile, rinviano per la prosecuzione, rispettivamente, al giudice o alla sezione civile competente, che decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile".

Proprio in ordine al regime transitorio pende ricorso presso le Sezioni Unite di questa Corte a cui è stata demandata la questione connessa al se debba applicarsi "a tutte le impugnazioni per i soli interessi civili pendenti alla data del 30 dicembre 2022 o, invece, alle sole impugnazioni proposte avverso le sentenze pronunciate a decorrere dalla suddetta data".

L'inammissibilità del ricorso rende impraticabile il rinvio della questione alla sezione civile competente (pertanto non risulta funzionale l'esito della decisione di questa Corte a Sezioni Unite) e ciò anche perchè i ricorrenti censurano la decisione nella parte inlfion ha ritenuto prescritto il reato già al momento della sentenza di primo grado, tema chiaramente afferente a profili penali, esclusi dall'ambito applicativo dell'art. 573 c.p., comma 1-bis.

3. Il primo ed il secondo motivo attraverso cui i ricorrenti censurano la conferma delle statuizioni civili che, secondo le argomentazioni del ricorso, avrebbero dovuto essere revocate in ragione dell'intervenuta prescrizione di entrambi i reati già al momento dell'accertamento operato dal Tribunale di Gela sono riproduttivi di identiche deduzioni adeguatamente confutate dalla Corte di appello e manifestamente infondati.

3.1. La Corte di appello ha con logicità, completezza, svolgendo corretti argomenti giuridici supportati da pertinenti riferimenti giurisprudenziali e dopo aver riprodotto in sintesi gli elementi che il Tribunale aveva valorizzato per ritenere integrati entrambi i reati oggetto di condanna, rilevato come sulla base delle rispettive contestazioni che trovavano fondamento nei corrispondenti elementi processuali utilizzati, era esclusa la decorrenza dei sette anni e sei mesi dalla consumazione dei reati, accertata, quanto al delitto di infedele patrocinio, in quella del 16 aprile 2014, quanto al delitto di truffa aggravata, consumato in data immediatamente successiva al 25 giugno 2014.

3.2. Ed infatti, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini del perfezionamento del delitto di infedele patrocinio di cui all'art. 380 c.p., è richiesta sia una condotta del patrocinatore irrispettosa dei doveri professionali stabiliti per fini di giustizia a tutela della parte assistita, sia un evento che implichi nocumento agli interessi di quest'ultima, evento che individua il momento consumativo del reato dal quale inizia a decorrere il termine di prescrizione (Sez. 2, n. 12361 del 14/02/2019, Musmeci Rv. 275383 - 01, cfr. Sez. 6, n. 9758 del 19/05/1998, Bove, Rv. 211589 - 01).

Datato risulta il principio di diritto secondo cui il delitto di cui all'art. 380 c.p. è un reato a forma libera che si consuma attraverso qualsiasi azione od omissione idonea a produrre nocumento agli interessi della parte rappresentata, assistita o difesa e che costituisca, per il soggetto che la compie, una infedeltà ai doveri professionali (Sez. 6, n. 4436 del 05/12/1975, dep. 1976 Rv. 133118).

Sotto tale aspetto, pertanto, corretta risulta la confutazione dell'argomento riproposto in sede di legittimità - secondo cui la contestazione sarebbe riferibile alla sola causa civile connessa al risarcimento dei danni n. 290/2010 instaurata dinanzi al Tribunale di Caltanissetta, così determinando la data dell'ultima condotta al 6 maggio 2013 (data della decisione del Tribunale civile).

I Giudici di merito hanno con completezza rappresentato come l'imputazione sia comprensiva di condotte attive ed omissive poste in essere anche dopo la definizione del giudizio di primo grado e in ogni caso idonee a cagionare un grave nocumento; le stesse sono, nello specifico, consistite nella mancata tempestiva comunicazione dell'esito positivo del giudizio svoltosi dinanzi al Tribunale di Caltanissetta intervenuto il 6 maggio 2013 e della conseguente emissione dell'ordinanza di assegnazione di somme in favore delle parti civili ad opera del Giudice dell'esecuzione di Palermo pari ad Euro 1.419.400,00, nell'omessa informazione del ricorso in appello avverso detta sentenza e di ogni azione successiva. Di determinante valenza, infine, è risultata l'omessa informazione alle clienti delle procedure esecutive di pignoramento presso terzi azionate dai ricorrenti per il recupero delle suddette somme, fornendo false spiegazioni sulla reale natura dell'azione (sul falso presupposto di una revoca del mandato in realtà ancora in essere con i soggetti attinti dalle stesse azioni esecutive da parte dei rispettivi avvocati), azionando i due provvedimenti monitori enunciati al capo b) in pendenza del giudizio di appello.

Ne consegue, pertanto che la data di consumazione del reato di infedele patrocinio è stata esattamente determinata con riferimento alla cessazione dell'incarico professionale "in epoca successiva all'aprile del 2014" (allorchè veniva inoltrata ulteriore nota spese per un importo di Euro 80.000 per la sola fase di appello); a tal fine corretto risulta l'apprezzamento delle plurime condotte che causavano un diretto nocumento ai danni delle parti civili che, senza essere informate dell'esito vittorioso del procedimento civile e dell'ammontare delle somme messe loro a disposizione presso l'istituto di credito, subivano l'escussione di gran parte della somma loro riconosciuta (in primo grado) all'esito del giudizio civile, attraverso una azione esecutiva proposta ed eseguita in tempi anomali ai danni delle loro clienti sul falso presupposto che fosse venuto meno il mandato; i Giudici di merito hanno, altresì, rilevato come non fossero state rispettate neppure le previsioni contenute nello sproporzionato patto di quota lite, non correttamente illustrato all'atto della sottoscrizione, che prevedeva la previa richiesta alle parti debitrici e ben altre scansioni cronologiche finalizzate al recupero delle somme se del caso spettanti ai ricorrenti (sul punto risulta precisa la motivazione della decisione di primo grado che ha analizzato il repentino ed "innaturale" succedersi degli eventi).

3.3. Corretta risulta, inoltre, l'esclusa prescrizione del contestato delitto di truffa aggravata in data precedente alla sentenza di primo grado la cui consumazione la Corte di merito ha individuato nell'aprile del 2014, al contempo confutando che la condotta penalmente rilevante fosse cessata al momento della stipula del patto di quota lite nel 2009; i Giudici di merito hanno ritenuto parimenti determinanti le condotte decettive tese al conseguimento del profitto in concreto conseguito e la perdita dello stesso da parte della persona offesa (significativa è stata giudicata la condotta dei ricorrenti che, successivamente al decreto che aveva riconosciuto le somme, aggredivano coattivamente le stesse con pignoramento presso la banca depositaria).

Il giudizio operato in ordine alla data di consumazione del reato risulta ossequioso dei principi di diritto costantemente enunciati da questa Corte secondo cui il delitto di truffa si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell'autore abbia fatto seguito la "deminutio patrimonii" del soggetto passivo che in ipotesi di truffa contrattuale si consuma non già quando il soggetto passivo assume, per effetto di artifici o raggiri, l'obbligazione della "datio" di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l'effettivo conseguimento del bene da parte dell'agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato (Sez. U, n. 18 del 21/06/2000, Franzo, Rv. 216429 - 01).

Pertinente, per meglio comprendere la discrasia tra l'assunzione dell'impegno negoziale e l'evento del reato che segna il momento della sua consumazione risulta quanto affermato da questa Corte allorchè ha dovuto analizzare la particolare situazione che si verifica quando i contratti alla base della truffa siano sottoposti a condizione, abbiano i caratteri dell'esecuzione differita o comunque non si esauriscano in un'unica prestazione: in tali ipotesi, il reato si è ritenuto integrato anche attraverso artifici e raggiri posti in essere dopo la stipula del contratto e durante la fase di esecuzione di esso, al fine di conseguire una prestazione altrimenti non dovuta o di far apparire verificata la condizione (Sez. 2, n. 29853 del 23/06/2016, Rv. 268074 - 01).

Il richiamato principio di diritto rende irrilevante ogni critica rivolta alla valutazione operata in ordine alla legittimità della quota lite, ma, soprattutto, ne riduce gli effetti in ordine alla determinazione della data di consumazione del reato; questa Corte ha, infatti, evidenziato che il momento di consumazione della truffa contrattuale può non emergere sempre in via preventiva ed astratta, dovendosi invece analizzare la peculiarità del singolo accordo, valorizzare la specifica volontà contrattuale, le peculiari modalità delle condotte e dei loro tempi, onde individuare l'effettivo pregiudizio correlato al vantaggio e quale il momento del loro prodursi (Sez. F, n. 31497 del 26/07/2012, Abatematteo, Rv. 254043 01).

3.4. A fronte, pertanto, di precise risposte sia in fatto che in diritto in ordine alla esclusa prescrizione in ragione del cronologicamente delineato tempus commissi delicti, i ricorrenti deducono la carenza di motivazione (primo motivo di ricorso) apoditticamente affermando che la Corte di appello si sarebbe limitata ad uno sterile rinvio alla decisione di primo grado che, per quanto detto, ha dimostrato di aver adeguatamente analizzato fornendo risposta alle deduzioni dei ricorrenti.

3.5. Declinato in fatto, invece, risulta il secondo motivo attraverso il quale, previa riduttiva lettura della contestazione a cui viene assegnata una cronologica limitata valenza delle condotte commissive ed omissive, i ricorrenti vorrebbero escludere la rilevanza penale alle stesse attraverso un diretto riferimento alle risultanze processuali, operazione preclusa in sede di legittimità; tanto più che le critiche vengono immotivatamente rivolte attraverso una acritica riproduzione del motivo di appello, l'estrapolazione della parte di decisione resa dalla Corte di appello sui punti criticati, cui segue la immotivata riproduzione delle ragioni poste in sede di gravame, in realtà, per quanto sopra detto, correttamente confutate in ordine ai punti decisivi dai Giudici di merito.

4. Il terzo motivo, con cui si rivolgono critiche alla decisione che avrebbe contravvenuto alle indicazioni contenute nella sentenza n. 182 del 2021 della Corte costituzionale utilizzando espressioni evocative dei reati contestati, risulta generico e manifestamente infondato.

La censura risulta generica nella parte in cui non prende in esame la motivazione che aveva ricapitolato la complessiva condotta dando conto delle emergenze processuali correttamente esaminate dal Tribunale ed oggetto di censure nei motivi di gravame. La Corte territoriale ha fornito corretta risposta alle censure, evidenziando come i ricorrenti, sin dal momento della sottoscrizione del mandato alle liti avessero manifestato l'intenzione di approfittare della buona fede riposta nei loro confronti dai danneggiati.

E' manifestamente infondata l'affermazione secondo cui l'aver fatto riferimento ad espressioni quali "plurime infedeltà ai doveri professionali (...) nocumento agli interessi delle parti assistite dagli odierni imputati dinanzi all'autorità giudiziaria (...) condotte decettive parimenti finalizzate a trarre in inganno "le stesse, così da procurarsi, in loro pregiudizio, un ingiusto profitto patrimoniale (...) odierni prevenuti" costituisce violazione dei principi espressi dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 182 del 2021.

Dette espressioni, seppure non si rivelino sempre tipiche del linguaggio giuridico del "giudice civile", principale critica rivolta nel ricorso, non risultano in alcun modo fare riferimento alla responsabilità penale dei ricorrenti che invece espressamente escludono in ragione dell'intervenuta prescrizione per come rilevata nella stessa decisione.

Risulta evidente lo sforzo argomentativo e l'attenzione della Corte di merito che ha inteso separare nettamente la prima parte della decisione, che doveva fornire adeguata risposta in merito alla dedotta prescrizione già al momento della sentenza di primo grado, ambito in cui si rendeva necessario il riferimento alla data di consumazione dei reati, dalla parte della sentenza che ha espressamente evidenziato, ai sensi dell'art. 2043 c.c., le ragioni che portavano ad un giudizio di sussistenza di un illecito aquiliano generatore di danno idoneo a confermare le statuizioni civili.

Deve, inoltre, osservarsi come le espressioni "plurime infedeltà ai doveri professionali (...) nocumento agli interessi delle parti assistite (...) dinanzi all'autorità giudiziaria (...) condotte decettive parimenti finalizzate a trarre in inganno le stesse, così da procurarsi, in loro pregiudizio, un ingiusto profitto patrimoniale (...)", sono espressioni certamente neutre e ben utilizzabili anche per definire una responsabilità di natura contrattuale o precontrattuale e, pertanto, certamente non eccentriche rispetto alla necessità di fornire una spiegazione del perchè si dovesse ritenere dolosa (in senso civilistico) la condotta dei ricorrenti idonea a cagionare un danno ingiusto in capo ai clienti quale conseguenza diretta dell'abuso della fiducia che, in definitiva, è risultata mal riposta.

5. Il quarto motivo con cui si deduce l'erronea esistenza del danno ricostruito in ragione della abusiva conclusione del patto di quota lite è declinato in fatto e generico.

I ricorrenti, pur rivolgendo critiche alla sola parte della decisione che ha evidenziato la sussistenza di elementi tali da far ritenere non genuino l'atto firmato dalle parti civili costituite, non prendono in esame il dato determinante che ha visto la decisione impugnata non soffermarsi su tale elemento al fine di ritenere la condotta generatrice di un fatto illecito: la Corte di appello ha osservato, con pertinente rinvio alla decisione di primo grado, precisa sul punto, come tutte le testimonianze e le risultanze istruttorie avessero fatto emergere che detto patto, pur firmato (da cui l'irrilevanza della dedotta mancanza di querela di falso), non fosse stato adeguatamente rappresentato e che anzi ne fosse stata celata l'effettiva valenza con plurime condotte decettive susseguitesi per tutto il periodo intercorrente tra la formale sottoscrizione del negozio e la revoca del mandato, non prima che i ricorrenti, senza neppure avanzare formale richiesta di pagamento del debito (pur prevista dallo stesso patto), attraverso una serie di azioni giudiziarie poste in essere in uno stretto lasso di tempo e sfruttando la mancata conoscenza dei fatti creata ad arte, conseguissero il pignoramento e la successiva consegna di consistenti somme di denaro da parte dell'istituto di credito depositario delle stesse che l'autorità giudiziaria aveva riconosciuto in favore delle parti civili costituite.

Anche in sede di legittimità i ricorrenti censurano la decisione assumendo che il patto di quota lite fosse legittimo e che la condotta si fosse esaurita in tale contesto, tentando di assegnare all'articolata motivazione dei giudici di merito una lettura alternativa e riduttiva della ricostruita condotta attraverso il diretto riferimento ai dati probatori che i competenti giudici di merito hanno dimostrato di aver saputo valorizzare.

Nè i ricorrenti confutano la parte della decisione che attraverso l'analisi delle plurime dichiarazioni e delle conversazioni con B.B. e A.A. registrate dalle parti civili, ha dato conto della reiterata condotta di costoro diretta a celare la reale portata del patto e delle azioni giudiziarie intraprese nei confronti dei propri clienti.

6. Analogo discorso deve essere svolto in merito alle censure contenute nel quinto motivo che insiste, ancora una volta, sulla legittimità del patto di quota lite e sulla conseguente legittimità delle azioni giudiziarie intraprese, ma non prende in esame la complessiva valorizzata condotta dolosa e non rispettosa dei doveri professionali e contrattuali esistenti tra avvocati e clienti e quella successiva al patto e portata avanti sino alle azioni di pignoramento delle somme e conseguente incasso di gran parte delle stesse; nè prende in esame l'apprezzata condotta che ha visto i ricorrenti, nonostante il contratto di quota lite, incassare per "anticipo spese" in contante l'importo di Euro 10.000 poi non decurtato dalla somma complessiva pignorata; anche detti ultimi elementi hanno fatto ritenere come le azioni fossero tutte tese ad occultare, in costanza del rapporto contrattuale, la reale portata del negozio a cui le parti civili risultarono, loro malgrado, vincolate.

Proprio tali condotte, con motivazione completa e giuridicamente corretta, hanno fatto ritenere l'operato dei ricorrenti contra jus e pertanto generatrici in via diretta a cagionare un danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 c.p..

7. Indeducibili risultano il sesto ed il settimo motivo, il primo dei quali relativo alla prova della ricezione della somma di Euro 10.000 in contante, l'altro concernente la ritenuta indeterminatezza del patto, in quanto non formulati in sede di gravame. Ed infatti, non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare, perchè non devolute alla sua cognizione (tra le tante, cfr. Sez. 3, n. 16610 del 24/01/2017, Costa, Rv. 269632).

Il sesto motivo, nondimeno, si palesa declinato in fatto nella parte in cui vorrebbe smentire la valutazione in ordine alla consegna della somma di denaro adeguatamente motivata dalla Corte di appello che ha evidenziato tutti gli elementi che, unitamente alla documentazione bancaria acquisita, facevano ritenere credibile la versione della parte civile C.C. in merito al pagamento effettuato in contante.

Il settimo motivo, che la difesa assume fosse stato posto in sede di gravame, da un canto non prende in esame come il rilievo in ordine alla sproporzione economica del patto fosse argomento speso in quella sede di merito unicamente a sostegno del primo motivo di appello (pag. 2) che censurava la decisione nella parte in cui avrebbe mutato - secondo la tesi dei ricorrenti - l'oggetto della contestazione, sotto altro aspetto, tenta nuovamente di incentrare le critiche su alcune espressioni riportate in sentenza e frammentariamente analizzate, senza in realtà riuscire a confutare la valutazione complessiva degli elementi in fatto che deponevano per la condotta dolosa dei ricorrenti tesa alla diretta produzione del danno ingiusto in capo alle parti civili.

8. All'inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende, secondo quanto previsto dall'art. 616 c.p.p., comma 1.

9. Deve, altresì, essere disposta la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese in favore delle parti civili costituite che hanno tempestivamente trasmesso le relative conclusioni che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili costituite che liquida in complessivi Euro 4.800,00 oltre accessori di legge.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 5 maggio 2023.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2023