Giu L'applicabilità delle pene sostitutive brevi ai processi pendenti in grado di appello alla data di entrata in vigore della riforma Cartabia
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE - 12 marzo 2024 N. 10233
Massima
L'applicabilità delle pene sostitutive brevi di cui all'art. 20-bis cod. pen. ai processi pendenti in grado di appello alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (riforma Cartabia), secondo la disciplina transitoria prevista dall'art. 95 del D.Lgs. citato è subordinata alla richiesta dell'imputato, da formularsi, al più tardi, nel corso della udienza di discussione. Il giudice di appello non ha alcun dovere di rendere edotto l'imputato circa la facoltà di richiedere l'applicazione delle sanzioni sostitutive, né, in assenza di esplicita richiesta in tal senso, di motivarne la mancata applicazione.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE - 12 marzo 2024 N. 10233

1. Il primo motivo è inammissibile. I giudici non si sono limitati ad una mera elencazione di dati e, piuttosto, hanno evidenziato la sussistenza di plurimi elementi chiaramente deponenti nel senso della inattività, rispetto all'epoca dei fatti, tanto dell'ente emittente le fattura quanto della società del ricorrente, e della chiara falsità delle fatture utilizzate: si tratta di dati che vanno dalla assenza della reciproca formalizzazione delle fatture tra utiliz2:atore ed emittente, alla assenza di ogni traccia di pagamento da parte del A.A., alla mancanza di ogni prova sui rapporti commerciali sottesi alle operazioni fatturate, fino alla grossolanità delle fatture medesime rispetto a quelle emesse nei confronti di altri clienti. Essi, secondo massime di esperienza ormai consolidate, dimostrano i fatti contestati all'imputato, così che non è dato comprendere cos'altro avrebbero dovuto rilevare e commentare i giudici rispetto ai predetti elementi per sostenere la tesi d'accusa. Per non dire dell'attenzione con cui la corte di appello ha anche evidenziato, con piena ragionevolezza, l'irrilevanza della dedotta mancata verifica, da parte della Agenzia delle Entrate, nella precedente sede della società del ricorrente. In tale contesto, il rilievo della corte circa la non indispensabilità delle prove testimoniali richieste in via di rinnovazione dibattimentale appare del tutto coerente e motivato, alla luce del principio per cui il rigetto dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello si sottrae al sindacato di legittimità, quando - come nella specie - la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fondi su elementi più che sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità (cass. pen. sez. 6, 40496/2009 Rv. 245009. Massime precedenti Conformi: N. 8891 del 2000 Rv. 217209, INI. 5782 del 2007 Rv.236064).

E il predetto rilievo appare sufficiente ed assorbente rispetto alla censura relativa all'ulteriore profilo motivazionale utilizzato dai giudici di merito, inerente la carenza di novità delle prove richieste.

2. Inammissibile è anche il secondo motivo riguardante la violazione dell'art. 192 comma 2 cod. proc. pen., in rapporto al ritenuto (dalla difesa) ridotto compendio probatorio disponibile, costituito di mere presunzioni tributarie. Ciò in quanto, alla luce di quanto osservato nel precedente paragrafo, emerge non solo un consistente insieme di elementi più che significativi a carico del ricorrente, ma anche una natura degli stessi nient'affatto riconducibile al piano delle mere presunzioni tributarie. A tale ultimo riguardo, occorre evidenziare che deve distinguersi, da una parte, l'attività di accertamento induttivo compiuta mediante gli studi di settore dagli Uffici finanziari, per la determinazione dell'imposta dovuta, di cui il giudice può avvalersi, per il principio di atipicità dei mezzi di prova nel processo penale, di cui è espressione l'art. 189 cocl. proc. pen., ferma restando l'autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall'art. 192, comma 1, cod. proc. pen.. (Sez. 3 -, n. 36207 del 17/04/2019 Rv. 277581 - 01), dall'altra, l'attività deduttiva, quale possibile metodo di ricostruzione probatoria generale, e dall'altra ancora le presunzioni legali tributarie, per le quali opera il diverso e peculiare principio per cui, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa (Sez. 3, n. 7078 del 23/01/2013 Rv. 254852 - 01). In tale quadro, mentre quindi le presunzioni legali corrispondono a circostanze già valutate dal legislatore come significative a fini tributari, e sono stabilite con specifica previsione di legge, il metodo induttivo oppure quello deduttivo riguardano invece una modalità di ricostruzione della prova mediante la valorizzazione, logica, di dati, non già oggetto di previa determinazione legale del loro significato; cosicché essi, piuttosto, sottostanno alle ordinarie regole logico - giuridiche di valutazione. Nel caso in esame, alla luce di quanto immediatamente sopra premesso la censura formulata è destituita di fondamento, atteso che riconduce nell'ambito di presunzioni tributarie elementi che tali non sono, non essendo previamente valutati dal legislatore nella loro portata indiziaria. E del resto il ricorrente omette del tutto ogni riferimento alle specifiche previsioni normative che fonderebbero l'istituto delle presunzioni richiamate, posto che non indica quali sarebbero le disposizioni che inquadrerebbero i dati valorizzati dai giudici nell'ambito delle predette presunzioni.

Va infine aggiunta l'intrinseca inammissibilità formale della deduzione critica in esame, atteso che le doglianze relative alla violazione dell'art. 192 cod. proc. pen., non essendo l'inosservanza di detta norma prevista a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, non possono essere dedotte con il motivo di violazione di legge di cui all'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., ma soltanto nei limiti indicati dalla lett. e) della medesima norma, ossia come mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti specificamente indicati nei motivi di gravame (tra le altre, sez. 1, n. 42207 del 20/10/2016 (dep. 15/09/2017) Rv. 271294 - 01).

7. 3. Anche il terzo motivo è manifestamente infondato. La doglianza investe l'applicabilità al ricorrente di pena sostitutiva, atteso che la pena applicata, pari a tre anni di reclusione, rientra nell'ambito dell'art. 20 bis cod. pen. come di recente introdotto. Si sostiene altresì che il A.A. sarebbe meritevole di accedere alle pene sostitutive e la circostanza per cui la Corte avrebbe omesso di motivare sul mancato invito alle parti a prestare il consenso alla applicazione di pene sostitutive di cui al citato art. 20 bis implicherebbe motivo di annullamento.

Va premesso che l'applicabilità delle pene sostitutive brevi di cui all'art. 20-bis cod. pen. ai processi pendenti in grado di appello alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (riforma Cartabia) - circostanza ricorrente anche nel caso in esame -, secondo la disciplina transitoria prevista dall'art. 95 del D.Lgs. citato è subordinata alla richiesta dell'imputato, da formularsi, al più tardi, nel corso della udienza di discussione. Inoltre, la Corte ha precisato che il giudice di appello non ha alcun dovere di rendere edotto l'imputato circa la facoltà di richiedere l'applicazione delle sanzioni sostitutive, né. in assenza di esplicita richiesta in tal senso, di motivarne la mancata applicazione. (Sez. 4 - n. 636 del 29/11/2023 Ud. (dep. 09/01/2024) Rv. 285630 - 01) Consegue che la specifica doglianza, qui sottoposta a questo giudice, per cui integrerebbe un vizio rilevante la omessa motivazione della Corte sul mancato invito alle parti perché formulassero il proprio consenso alla applicazione della pena sostitutiva, è completamente destituita di fondamento. Non sussistendo - come sopra evidenziato - alcun dovere o onere in tal senso a carico dei giudici procedenti. Più in generale quindi, può rilevarsi che la disciplina invocata prevede una procedura di applicabilità, a date condizioni, di sanzioni sostitutive brevi, non sanzionata a pena di nullità, inutilizzabilità, decadenza o inammissibilità, così che non è deducibile il vizio rappresentato. Inoltre, non solo il ricorso appare generico a fronte di una meramente asserita, siccome indimostrata, meritevolezza della sostituzione evocata, ma neppure risulta che in sede di appello o anche immediatamente dopo la lettura del dispositivo, l'imputato abbia richiesto l'esercizio, da parte del giudice, dei poteri di sostituzione delle pene detentive. In proposito, va ribadito l'indirizzo di legittimità per cui in tema di pene sostitutive, ai sensi della disciplina transitoria contenuta nell'art. 95 D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia), affinché il giudice di appello sia tenuto a pronunciarsi in merito all'applicabilità o meno delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all'art. 20-bis cod. pen., è necessaria una richiesta in tal senso dell'imputato, da formulare non necessariamente con l'atto di gravame, ma che deve comunque intervenire, al più tardi, nel corso dell'udienza di discussione in appello (Sez. 6 - n. 33027 del 10/05/2023 Ud. (dep. 28/07/2023) Rv. 285090 - 01), ed ancora, in tema di sanzioni sostitutive di pene detentive brevi, il difensore che, nelle conclusioni o con richiesta formulata subito dopo la lettura del dispositivo, non abbia sollecitato l'esercizio, da parte del giudice, dei poteri di sostituzione delle pene detentive di cui all'art. 545-bis cod. proc. pen. non può, in sede di impugnazione, dolersi del fatto che non gli sia stato dato l'avviso previsto dal comma 1 di tale disposizione. (Sez. 2 - n. 43848 del 29/09/2023 Rv. 285412 - 02)

4. Riguardo al quarto motivo, inerente la erronea determinazione del profitto confiscato va considerata la determinazione del profitto da confiscare come operata con la prima sentenza. In essa risulta che il primo giudice ha individuato il profitto per cui ha disposto la confisca nella imposta evasa per effetto dell'utilizzo delle fatture emesse a fronte di operazioni inesistenti da parte della ditta CA.BI di B.B. facendo quindi riferimento solo alle fatture di cui all'art. 2 del capo a). Quantificando la maggior imposta evasa in:

Euro 41.051 ,00 per quel che concerne l'IRPEF;

Euro 1.7 52,00 per quel che concerne I' addizionale regionale;

Euro 407,00 per quel che concerne l'addizionale comunale;

Euro 3.974,00 per quel che concerne l'IRAP;

Euro 42.200,00 per quel che concerne l'IVA indebitamente portata in compensazione; e così per complessivi Euro 89.384,00. Così statuendo la confisca per equivalente dei beni e delle somme nella disponibilità dell'imputato sino alla concorrenza del predetto importo. Consegue che a fronte di quella che appare una corretta statuizione, la deduzione difensiva nella parte in cui pare lamentare la mancata inclusione nella base imponibile considerata dai giudici, ai fini della determinazione della somma confiscabile, anche della fittizietà della fattura del capo b), risulta del tutto generica e quindi inammissibile. La censura, infatti, presuppone, senza dimostrarla, una data composizione di tale base come considerata dai giudici, attraverso una mera asserzione, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso. Per completezza, è utile osservare che secondo la normativa tributaria, l'imposta sul valore aggiunto è dovuta anche per il caso di emissione di fatture false, indipendentemente dal loro effettivo incasso, con conseguente obbligo di presentare la relativa dichiarazione. (Sez. 3, n. 32500 del 06/06/2018 Rv. 273697 - 01).

5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende

Conclusione

Così deciso, il 24 ottobre 2023.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2024.