Giu sofisticazione dei vini: il rapporto tra l'art. 516 c.p. e la legislazione speciale - specialità reciproca
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - 04 aprile 2024 N. 13767
Massima
Stante l'ampiezza del perimetro delineato dall'art. 516 cod. pen., tra la relativa disciplina e le norme della legislazione speciale in materia di sofisticazione dei vini, in particolare quella dettata dal secondo comma dell'art. 33 della legge n. 82 del 2006, si può prospettare una relazione di specialità reciproca in quanto, pur esistendo un nucleo fattuale comune, la disciplina speciale non copre l'intera estensione della norma codicistica, così come quest'ultima (che, ad esempio, non riguarda tutte le operazioni di vinificazione e di produzione) non copre l'intera estensione della legge speciale.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - 04 aprile 2024 N. 13767

1. I fatti oggetto dell'imputazione nascono da una complessa indagine che ha avuto origine nel 2014, quando alcuni ristoratori, titolari di enoteche o esportatori di vino avevano segnalato di aver acquistato bottiglie di vino pregiato che, in realtà, contenevano un prodotto diverso.

Le indagini si sono sviluppate attraverso intercettazioni telefoniche e servizi di osservazione e hanno poi portato ad una pluralità di perquisizioni e sequestri e, all'esito, alla formulazione delle contestazioni cristallizzate nei diversi capi d'imputazione a carico, tra gli altri, anche di A.A..

Secondo l'ipotesi accusatoria, in estrema sintesi, esisteva una struttura associativa organizzata (contestata al capo A della rubrica ai sensi dell'art. 416 cod. pen.) la cui attività consisteva nell'acquistare vino di scarsa qualità, nell'aggiungere a questo alcool per aumentarne la gradazione, imbottigliarlo e metterlo in vendita in modo che apparisse essere un vino di pregio (artt. 515 e 516 contestati ai capi D ed E), falsificando le fascette, le relative indicazioni geografiche e le denominazioni di origine, i relativi marchi e il contrassegno ministeriale previsto per i vini DOC e DOCG (artt. 473, 517-quater e 469 cod. pen., capi B, C e H).

La prospettazione accusatoria è stata sostanzialmente accolta dal Tribunale (ad esclusione della contestazione formulata ai sensi dell'art. 515 cod. pen. al capo D, per la quale il A.A. è stato assolto per insussistenza del fatto) e successivamente confermata dalla Corte d'appello.

2. Ricorre per cassazione A.A. articolando sei motivi di censura.

2.1. I primi due motivi, formulati sotto i profili della violazione di legge e del connesso vizio di motivazione, attengono ai fatti contestati al capo E (art. 516 cod. pen.) e censurano, da un canto, la loro qualificazione in termini di delitto consumato (laddove, secondo la difesa, le condotte poste in essere si sarebbero dovute sussumere nella parallela fattispecie tentata, esclusa dai giudici di merito sull'erroneo presupposto che il delitto fosse un reato di mero pericolo, a consumazione anticipata, e, quindi, non fosse logicamente configurabile in termini di tentativo); dall'altro la ritenuta applicazione della norma penale nonostante l'evidenziato rapporto di specialità esistente tra questa e l'art. 33, comma 2, della legge n. 82 del 2006 e la mancanza, nella formulazione normativa applicabile ratione temporis, di una clausola di riserva (successivamente introdotta dalla legge n. 238 del 2016) in favore della prima.

2.2. Il terzo attiene alla contestazione associativa e deduce che la Corte d'appello non avrebbe motivato né in ordine al profilo soggettivo della ritenuta condotta partecipativa, né in ordine alla (invocata) qualificazione di detta condotta in termini di mero concorso di persone.

2.3. Il quarto censura il ritenuto concorso tra il reato di cui all'art. 473 (capo B) e quello di cui all'art. 517-quater cod. pen. (capo C), in ragione della sostanziale sovrapponibilità delle condotte contestate (la falsificazione del marchio e l'identificazione della provenienza delle bottiglie) e del rapporto di specialità esistente tra i due reati, con conseguente assorbimento del secondo nel primo. In ogni caso, si sostiene, la condotta si sarebbe arrestata allo stadio del tentativo, non essendo il materiale contraffatto mai uscito dalla disponibilità dell'imputato.

2.4. Il quinto attiene ai rapporti tra il reato di cui al capo B) (art. 473 cod. pen.) e quello di cui al capo H) (art. 469 cod. pen.) e deduce che, a prescindere dalla mancanza della prova di una reale condotta partecipativa del A.A. nella realizzazione del reato di cui all'art. 469 cod. pen. (essendosi limitato semplicemente a trasportare le fascette falsificate), la condotta contestata (la falsificazione delle impronte della pubblica amministrazione) sarebbe sostanzialmente sovrapponibile a quella di cui al capo B) (la falsificazione del marchio), rappresentandone un necessario presupposto (in quanto senza di essa il vino non si sarebbe potuto commercializzare) ed essendoci tra le due norme un rapporto di specialità reciproca che ne impedirebbe il concorso.

2.5. Il sesto attiene al trattamento sanzionatorio e deduce l'eccessività della pena irrogata e la mancanza di un compiuto impianto argomentativo a sostegno della determinazione raggiunta, anche in termini di riconoscimento delle attenuanti generiche.

Motivi della decisione

1. I primi due motivi, per come si è detto, attengono ai fatti di cui al capo E, con il quale si è contestato il reato di cui all'art. 516 cod. pen. per aver commercializzato come genuine sostanze alimentari adulterate (in particolare, vino con aggiunta di alcool).

Il ricorrente ritiene sussistere, preliminarmente, un rapporto di specialità tra la generale disciplina codicistica (art. 516 cod. pen.), dettata per tutte le sostanze alimentari, e la successiva normativa speciale in materia di sofisticazione dei vini, in particolare quella dettata dal secondo comma dell'art. 33 della legge n. 82 del

2006 (normativa abrogata dalla successiva legge n. 238 del 2016, ma astrattamente applicabile ratione temporis), che prevede la sola sanzione amministrativa.

La deduzione è infondata.

Va premesso che, effettivamente, in generale, stante l'ampiezza del perimetro delineato dall'art. 516 cod. pen., tra la relativa disciplina e le norme della legislazione speciale in materia di sofisticazione dei vini, si può prospettare una relazione di specialità reciproca in quanto, pur esistendo un nucleo fattuale comune, la disciplina speciale non copre l'intera estensione della norma codicistica, così come quest'ultima (che, ad esempio, non riguarda tutte le operazioni di vinificazione e di produzione) non copre l'intera estensione della legge speciale (Sez. 3, n. 5906 del 15/10/2013, dep. 2014, Gorgoni, Rv. 258925).

Per cui, se la fattispecie concreta rientra totalmente nella sfera di applicazione sia della norma codicistica sia di quella speciale sulla produzione ed il commercio dei vini (in quanto riferita, per intero, a quel nucleo fattuale comune), in forza del principio di specialità dovrà applicarsi solo quest'ultima. Se, però, il soggetto pone in essere una condotta complessiva che violi, per una parte, le norme della disciplina speciale e, per altra parte, diverse ed ulteriori norme ricavabili dagli artt. 515 e 516 cod. pen., allora non potrebbe escludersi l'applicazione di entrambe le discipline in relazione alle singole condotte realizzate.

Ciò premesso, il secondo comma del citato art. 33, la cui applicazione invoca la difesa, sanziona la condotta di chi, nella fase della vinificazione o della successiva manipolazione del prodotto, impiega in tutto o in parte prodotti non consentiti, quali alcol, zuccheri o materie zuccherine o fermentate diverse da quelle provenienti dall'uva fresca anche leggermente appassita. La condotta descritta dall'art. 516 cod. pen., invece, prescinde da ogni attività di adulterazione del prodotto (in sé considerata) e attiene alla sola (successiva) fase della commercializzazione.

Si tratta, quindi, di due fattispecie differenti, che hanno in comune solo l'oggetto materiale del reato (il vino adulterato, quale sostanza alimentare non genuina), ma che divergono radicalmente nella descrizione della condotta: l'una afferente alla pregressa fase della adulterazione e, l'altra, a quella successiva della commercializzazione.

In questi termini, quindi, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, alcun rapporto di specialità può prospettarsi tra le due norme, ciascuna con un loro proprio spazio di applicazione. Uno spazio, quello coperto dalla norma codicistica, che potrebbe essere parzialmente sovrapponibile alla normativa speciale, ma non in relazione all'art. 33 invocato dalla difesa, bensì al successivo art. 35, che, tuttavia, contiene esplicitamente una clausola di riserva che disciplina a monte le ipotesi di concorso.

Quanto alla residua censura, il ricorrente, per come si è detto, contesta la qualificazione dei fatti contestati al capo E) in termini di fattispecie consumata, deducendo l'illogicità della motivazione offerta dalla Corte territoriale (e, prima di questa, dal Tribunale) per escludere la configurabilità del tentativo.

Anche questa censura è infondata.

Va premesso che il delitto di cui all'art. 516 cod. pen. si consuma a prescindere dalla vendita effettiva, con la sola commercializzazione della sostanza alimentare non genuina; quindi, nel momento in cui questa è messa sul mercato, ovunque questa sia conservata (anche in un locale non esclusivamente adibito alla vendita), purché a disposizione di eventuali acquirenti.

Rispetto a tale attività, quindi, è ben ipotizzabile una fase preparatoria, durante la quale, ove l'agente abbia compiuto atti idonei e diretti in modo non equivoco alla commercializzazione effettiva del prodotto, ma quest'ultimo, rimasto nella disponibilità dell'agente, non sia ancora stato posto in vendita, il reato si manifesta nella sua forma tentata (Sez. 3, n. 8662 del 05/06/1998, Fusello, Rv. 212039). In questi termini, salva isolata risalente pronuncia (Sez. 3, n. 1010 del 30/03/1966, Saviola, Rv. 101759), la giurisprudenza, seppur altrettanto risalente, di questa Corte (Sez. 6, n. 6960 del 20/03/1986, Duca, Rv. 173312; Sez. 3, n. 3330 del 01/12/1965, dep. 1966, Marchi, Rv. 100929; Sez. 3, n. 3048 del 10/11/1965, dep. 1966, Nanocchio, Rv. 100137).

La valutazione della sussistenza, in concreto, di siffatte circostanze, ed il trarne la conclusione della effettiva messa in vendita o altrimenti in commercio del prodotto adulterato, costituisce giudizio di fatto e quindi, in quanto tale, incensurabile in cassazione se logicamente e congruamente motivato.

Ciò considerato, i giudici del merito, pur ritenendo (erroneamente) che non fosse ipotizzabile una forma tentata, hanno dato atto che le bottiglie adulterate, sebbene non effettivamente "commercializzate", sono state in realtà messe in commercio in quanto pronte per la successiva vendita. Tant'è che parte delle condotte contestate sono state escluse solo perché non è stata raggiunta la prova dell'effettiva "spedizione" delle bottiglie in Costarica. Ma l'effettiva commercializzazione, intesa come concreto trasferimento del prodotto, è condotta estranea al perimetro normativo delineato dall'art. 516, per la cui consumazione, invece, per come si è detto, è sufficiente che il prodotto non genuino sia tenuto in un locale qualsiasi a disposizione però degli eventuali acquirenti. Circostanza che emerge chiaramente dalla ricostruzione dei fatti prospettata nelle sentenze di primo e secondo grado.

2. Il terzo motivo di censura, afferente al profilo soggettivo del reato associativo e alla qualificazione della condotta in termini d; mero concorso di persone, è, invece, manifestamente infondato in quanto non tiene conto dell'analitica motivazione offerta nella sentenza impugnata.

La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto l'esistenza di un'autonoma struttura associativa fra B.B., C.C. e A.A. (e l'individuale consapevole partecipazione di ciascuno) deducendola da una pluralità di elementi, logici e fattuali, analiticamente indicati nel corpo della motivazione. Segnatamente:

- la natura stessa dell'attività, ontologicamente destinata a protrarsi nel tempo, che mal si prestava a un mero occasionale concorso di persone, necessitando comunque di un minimo di struttura organizzativa e di uno stabile vincolo fra più soggetti che permettesse di reperire il vino, correggerne artificialmente le caratteristiche, imbottigliarlo, trasportarlo, avere a disposizione soggetti in grado di stampare le false etichette e le false fascette dei vini DOC e DOCG;

- la continuità e la costanza dei contatti telefonici personali fra gli associati; l'esistenza delle basi logistiche costituite dalla cantina e dagli uffici di Alfano; la disponibilità dei beni necessari per l'operazione; la suddivisione di compiti e anche una seppur elementare struttura gerarchica che vedeva a capo C.C. e B.B.; l'adozione di un linguaggio convenzionale e la presenza di un telefono cellulare con scheda coperta (portato da A.A. e poi rinvenuto in sede di perquisizione nello studio professionale di pertinenza della C.C. e D.D.);

- gli esiti dell'attività di indagine (intercettazioni, servizi di osservazione, perquisizioni e sequestri); le stesse dichiarazioni rese da C.C., dalle quali è emersa la concreta attività svolta dal A.A. (ha procurato vino di scarsa qualità portandolo nella cantina di C.C., è stato presente nella cantina e ha lavorato per imbottigliare il vino, ha portato ad Alfano le fascette dategli da B.B., ha trasportato il "pizzino" e il telefono con scheda coperta);

- l'incompatibilità della tesi difensiva (in ordine alla invocata inconsapevolezza del A.A.) con il tenore di varie conversazioni intercettate, che non sono altrimenti spiegabili (né spiegate), se non ipotizzando che l'imputato fosse perfettamente al corrente che si stava imbottigliando un vino di poco pregio per farlo apparire come vino di qualità prodotto da importanti aziende del settore.

A fronte di questi analitici argomenti, il ricorrente si è limitato a dedurre, nuovamente, elementi già ampiamente vagliati dalla corte territoriale prospettando una diversa interpretazione delle prove acquisite e, in particolare, delle singole conversazioni intercettate. E, al riguardo, va ribadito, da un canto, che l'interpretazione delle conversazioni costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito (rispetto alla quale, in sede di legittimità, è possibile prospettare un interpretazione diversa solo in presenza di un travisamento della prova) e, dall'altro, che sono inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio (Sez. 5, n. 8094 del 11/01/2007, Rv. 236540; Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, Rv. 250168), essendo estranei al sindacato della Corte di cassazione i rilievi in merito al significato della prova ed alla sua capacità dimostrativa (Sez. 5, n. 36764 del 24/05/2006, Rv. 234605; Sez. 6, n. 36546 del 03/10/2006, Rv. 235510).

3. Ad analoghe conclusioni può giungersi anche con riferimento al quarto motivo di censura.

Il ricorrente deduce, da un canto, che tra il reato di cui all'art. 473 (capo B) e quello di cui all'art. 517-quater cod. pen. (capo C), in ragione della sostanziale sovrapponibilità delle condotte contestate (la falsificazione del marchio e l'identificazione della provenienza delle bottiglie), sussista un rapporto di specialità, invocando il conseguente assorbimento del secondo nel primo; dall'altro, che la condotta si sarebbe arrestata allo stadio del tentativo, non essendo il materiale contraffatto mai uscito dalla disponibilità dell'imputato.

La deduzione è infondata.

Il delitto previsto dall'art. 517-quater cod. pen., infatti, sanziona la condotta di contraffazione o alterazione dei segni distintivi (indicazioni e denominazioni) di origine geografica e, al secondo comma, quella di introduzione nel territorio dello Stato, detenzione per la vendita, offerta in vendita diretta ai consumatori e messa in circolazione dei prodotti con i segni mendaci; non richiede, tuttavia, che l'origine del prodotto agroalimentare sia tutelata, ai sensi dell'art. 11 D.Lgs. n. 30 del 2005 (codice della proprietà industriale), attraverso la registrazione di un marchio collettivo.

Cosicché, come già evidenziato da questa Corte (Sez. 3, n. 28354 del 23/03/2016, Cottini, Rv. 267455), potendo la relativa contraffazione integrare anche i reati di cui agli artt. 473 o 474 cod. pen., le due norme possono effettivamente concorrere, attesa anche la diversità dei beni giuridici tutelati e la mancata previsione nell'art. 517-quater cod. pen. di clausole di riserva.

L'ulteriore censura, relativa alla qualificazione dei fatti conrestati in termini di delitto tentato è, invece, inammissibile.

Va premesso che, con autonomo motivo di appello afferente al capo B) della rubrica, il ricorrente deduceva, tra l'altro, che la condotta si sarebbe arrestata allo stadio del mero tentativo in quanto le bottiglie (oggetto dell'imputazione) non sarebbero mai uscite dalla sfera di disponibilità del presunto falsario, per cui non si sarebbe potuto ritenere realizzata l'offesa al bene giuridico tutelato dalla fattispecie.

La Corte territoriale, effettivamente, omette ogni riferimento alla predetta censura, ma tanto non determina la nullità (in parte qua) della decisione assunta in quanto la censura prospettata era, già in origine, inammissibile.

Va premesso che, al capo B), è stato contestata, ai sensi dell'art. 473 cod. pen., la contraffazione dei marchi di alcune importanti aziende agricole.

Ebbene, questa Corte ha ripetutamente precisato come il delitto di cui all'art. 473 cod. pen., essendo finalizzato a tutelare il collegamento tra il marchio contraffatto e un determinato prodotto, precede l'immissione in circolazione dell'oggetto falsamente contrassegnato e ne prescinde, in quanto il bene oggetto della falsificazione, una volta registrato, è per sua natura destinato alla circolazione all'interno del mercato, anche se non ancora inserito nel circuito commerciale (Sez. 5, n. 26398 del 05/04/2019, De Gregorio, Rv. 276893; Sez. 5, n. 18289 del 27/01/2016, Volponi, Rv. 267119).

Da ciò discende, da un canto, l'assoluta irrilevanza, nell'economia di giudizio di responsabilità, della circostanza evidenziata dal ricorrente (che le bottiglie non sarebbero mai uscite dalla sfera di disponibilità del presunto falsario); dall'altro, l'inammissibilità, per carenza d'interesse (essendo il motivo d'appello pretermesso in sé manifestamente infondato), del relativo motivo di ricorso per cassazione, in quanto l'eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (Sez. 2, n. 35949 del 20/06/2019, Liberti, Rv. 276745; Sez. 2, n. 10173 del 16/12/2014, dep. 2015, Bianchetti, Rv. 263157).

4. Infondato è, invece, il quinto motivo, afferente ai rapporti tra il reato di cui al capo B) (art. 473 cod. pen.) e quello di cui al capo H) (art. 469 cod. pen.). La difesa deduce che, a prescindere dalla mancanza della prova di una reale condotta partecipativa del A.A. nella realizzazione del reato di cui all'art. 469 cod. pen. (essendosi limitato semplicemente a trasportare le fascette falsificate), la condotta contestata (la falsificazione delle impronte della pubblica amministrazione) sarebbe sostanzialmente sovrapponibile a quella di cui al capo E) (la falsificazione dell'origine del marchio), rappresentandone un necessario presupposto (ai fini della commercializzazione dei prodotti) ed essendoci tra le due norme un rapporto di specialità reciproca che ne impedirebbe il concorso.

La censura afferente alla asserita mancanza di prova di una condotta partecipativa del A.A. è evidentemente generica, in quanto non tiene conto degli argomenti sui quali la Corte territoriale ha fondato la prova di una sua condotta di partecipazione al reato ravvisata nell'aver contribuito materialmente a procurare il vino di scarsa qualità, al successivo imbottigliamento e al materiale trasporto delle false fascette.

Quanto alla ritenuta sovrapponibilità delle condotte contestati ai capi B) ed H), va premesso che l'art. 473 cod. pen. sanziona la condotta di chi, potendo conoscere dell'esistenza del titolo di proprietà industriale, contraffa o altera marchi o segni distintivi, nazionali o esteri di prodotti industriali (ovvero, senza essere concorso nella contraffazione o alterazione, fa uso di tali marchi o segni contraffatti o alterati).

Prescindendo dalla condotta di "uso", indicato nella seconda parte dell'articolo, la condotta sanzionata è, quindi, quella della contraffazione (intesa come riproduzione integrale, in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa, del marchio o del segno distintivo), ovvero dell'alterazione (intesa come riproduzione che, seppur parziale, è tale da poter ingenerare confusione con il marchio originario o con il segno distintivo).

Il reato è plurioffensivo, destinato a tutelare non solo quel particolare bene giuridico, di natura immateriale e collettiva, rappresentato dalla pubblica fede, ma anche altri beni meritevoli di protezione, quali le privative sui marchi registrati, l'interesse alla regolarità del commercio e dell'industria e, più in generale, l'economia nazionale, secondo una condivisibile tendenza volta ad assicurare effettività ai principi costituzionali in materia di iniziativa economica e di proprietà privata.

In questa prospettiva si colloca la giurisprudenza di questa Corte, che, nella sua espressione più autorevole, ha evidenziato come, in tema di oggettività giuridica, nei delitti contro la fede pubblica deve riconoscersi, oltre a un'offesa alla fiducia collettiva in determinati atti, simboli o documenti - bene oggetto di primaria tutela - anche un'ulteriore attitudine offensiva degli atti stessi in riguardo alla concreta incidenza che esercitano nella sfera giuridica del singolo privato. I delitti previsti dal titolo VII del vigente codice penale, pertanto non tutelano solo la fede pubblica, ma anche gli specifici interessi concreti dei soggetti che subiscono un pregiudizio dalla attività di falsificazione o di utilizzazione dei beni frutto della falsificazione (Sez. U, n. 46982 del 25/10/2007, Pasquini, Rv. 237855; Sez. 5, n. 18289 del 27/01/2016, Volponi, Rv. 267119).

Parallelamente, l'art. 469 cod. pen. sanziona la medesima condotta descritta nell'art. 473 cod. pen., la contraffazione, ma riferita non già ai marchi, bensì alle impronte di una pubblica autenticazione o certificazione (nel caso specifico quelle riportate nelle fascette previste per i vini DOC e DOCG).

Ebbene, effettivamente, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il delitto previsto dall'art. 469 cod. pen. non può concorrere con i reati di falsità in atti quando il contrassegno sia elemento essenziale del documento, ossia quando la falsificazione del contrassegno risulti indispensabile ai fini della falsificazione del documento (Sez. 5, n. 13299 del 20/10/1999, La Porta, Rv. 214854; Sez. 5, n. 42649 del 03/11/2004, Barlotti, Rv. 230263; Sez. 5, n. 1702 del 23/10/2013, dep. 2014, Sisti, Rv. 258672). Si richiama, sotto tale profilo, l'art. 477 cod. pen., che equipara alla falsità materiale in autorizzazione o in certificato la condotta di chi, "mediante contraffazione o alterazione, fa apparire adempiute le condizioni richieste" per la validità di quegli atti ed ha lo scopo di rendere punibile a un solo titolo la falsificazione di un documento che è rappresentativo, oltre che di un certificato o di un'autorizzazione amministrativa, anche di atti i quali sarebbero di per sé riconducibili all'ipotesi prevista dall'art. 476 cod. pen. o di contrassegni di per sé riconducibili all'art. 469. E la ragione della prevalenza assegnata al certificato o all'autorizzazione è nella funzione meramente accessoria che viene svolta dagli altri atti (vidimazioni, autenticazioni) rispetto a quello principale.

Tale argomentazione, tuttavia, non può essere svolta per il rapporto tra gli artt. 469 e 473. Non già per l'asserita diversità dei beni giuridici tutelati (come parrebbe prospettare la Corte territoriale), circostanza che non rileva non solo in ragione della evidenziata plurioffensività dei reati di falso, ma anche per la preponderante rilevanza, in vista dell'apprezzamento della realtà o dell'apparenza del concorso tra norme penali incriminatrici, del criterio di specialità, previsto dall'art. 15 cod. pen. (Sez. U. n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, Rv. 270902; Sez. 1, n. 4772 del 12/10/2022, dep. 2023, Koraich, Rv. 284179). Ma per l'oggettiva diversità della condotta e del relativo oggetto materiale: l'etichetta apposta (e, quindi, il marchio utilizzato) e, separatamente, le fascette con l'impronta ministeriale. E la circostanza per cui la condotta sanzionata ai sensi dell'art. 473, nella sua dimensione fattuale, presuppone, in concreto, la necessaria apposizione delle fascette ministeriali, ontologicamente accessorie rispetto alla contraffazione delle etichette, è circostanza che non incide sulla già evidenziata diversità.

5. Il sesto motivo è, invece, inammissibile.

Il ricorrente, per come si è detto, censura (pur a fronte di una incoerente indicazione nella rubrica del motivo, riferita ad un'asserita illegalità della pena accessoria, in realtà non applicata) la concreta determinazione della pena irrogata (ritenuta, in ipotesi, eccessiva rispetto alla dimensione fattuale delle condotte poste in essere), anche in ragione del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, e la mancanza di un compiuto impianto argomentativo a sostegno della quantificazione raggiunta.

Il motivo è manifestamente infondato.

La graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice dì merito, che la esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014,Rv. 259142).

E sotto tale profilo, deve ritenersi adempiuto l'obbligo di motivazione del giudice di merito sulla determinazione in concreto della misura della pena allorché siano indicati nella sentenza gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell'ambito della complessiva dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all'art. 133 cod. pen. (Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998, Rv. 211582; Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013, dep. 2014, Rv. 258410). Un onere motivazione che si attenua quanto più la determinazione sia prossima al minimo edittale, rimanendo, in ultimo, sufficiente il semplice richiamo al criterio di adeguatezza, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 cod. pen. (Sez. 2, n. 28852 del 08/052013, Rv. 256464).

Ebbene, da un canto la pena irrogata (anni due e mesi tre, ridotta per il rito ad anni uno e mesi sei di reclusione) è ampiamente inferiore alla media edittale, dall'altro sono chiaramente indicati i criteri logici e fattuali utilizzati ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio (l'intensità del dolo e la gravità della condotta tenuta in danno di una pluralità di aziende). E tanto, alla luce di quanto osservato, è ampiamente sufficiente a ritenere adempiuto il relativo onere motivazione.

Quanto al riconoscimento delle generiche, in linea di principio, la meritevolezza dell'adeguamento della pena, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni del fatto o del soggetto, tipica delle circostanze attenuanti generiche, non può mai essere data per presunta (Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, Rv. 271315). Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita, essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti idonei a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata, a fronte di specifica richiesta dell'imputato, anche attraverso la sola indicazione delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Rv. 192381).

Ebbene, in concreto, la Corte territoriale ha motivato il diniego evidenziando una precedente condanna in materia di disciplina degli alimenti e l'assoluta mancanza di resipiscenza o di specifiche motivazioni circa le ragioni della sua condotta idonee a giustificare una pena più mite. E tanto, alla luce di quanto osservato in precedenza, è ampiamente sufficiente; a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis, disposta con il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell'imputato.

Né, d'altronde, come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, sussiste alcuna incompatibilità tra il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la concessione della sospensione condizionale della pena, o viceversa, avendo i due istituti diversi presupposti e finalità, in quanto il riconoscimento delle prime risponde alla logica di un'adeguata commisurazione della pena, mentre la concessione della seconda si fonda su un giudizio prognostico strutturalmente diverso da quello posto a fondamento delle attenuanti generiche (Sez. 4, n. 27107 del 15/09/2020, Tedesco, Rv. 280047).

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalle parti civili costituite, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle costituite parti civili, che liquida, quanto alla parte civile difesa dall'avv. Massimo Rossi, in complessivi Euro 3.500,00, quanto alle parti civili difese dall'avv. Gabriele Capetta, in complessivi Euro 4.500,00, quanto alla parte civile difesa dall'avv. Gianpiero Pirolo, in complessivi Euro 3.600,00, tutti gli importi oltre accessori di legge.

Conclusione

Così deciso il 16 gennaio 2024.

Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2024.